L'opinione

martedì 21 Ottobre, 2025

L’occupazione a Sociologia e il blocco fascista all’ingresso dei novelli guardiani del nuovo totalitarismo. L’analisi di Luca Fazzi

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Come scriveva George Orwell la resistenza al totalitarismo è una questione vitale. Quindi esprimere una protesta contro un genocidio è giusto. Questo non può volere dire però che a Sociologia non può entrare chi la pensa in modo diverso

Avere l’occasione di prima mattina di compiere un’osservazione partecipante di un fenomeno sociale è ambizione di molti sociologi. Quella svolta ieri mattina non è stata motivo però di gioia e ha lasciato anzi molta malinconia e un po’ di rabbia.

Il Palazzo di Sociologia di Trento è diventato di nuovo il luogo in cui sono esplose le proteste contro una presunta mancata presa di posizione dell’ateneo contro il genocidio in Palestina.

Diversamente dagli anni passati non si tratta di un’occupazione simbolica ma di un vero blocco degli ingressi. Di prima mattina, i portoni dello storico edificio di Via Verdi sono stati chiusi con un blocco umano verso l’esterno a fare servizio d’ordine e con catenacci dall’interno per vietare l’accesso a chiunque non aderisse e non esprimesse solidarietà con le motivazioni dei manifestanti.

Il caos delle prime ore di occupazione del palazzo è stato scandito da fatti che dovrebbero dare molto da pensare. I docenti sono stati fermati davanti all’ingresso dai novelli guardiani del nuovo totalitarismo e lasciati entrare in base a una dichiarazione di concordanza con scopi e modi della protesta. Per chi esprimeva dubbi o disaccordi sul blocco all’ingresso, nessuna possibilità di accesso e parole di disapprovazione e scherno. Molti studenti normali erano stati avvertiti di prima mattina dalle chat di gruppo, ma altri arrivavano con l’intenzione di seguire le lezioni, e trovavano la porta sbarrata dal servizio di ordine. Un ragazzo ha fatto notare ai guardiani che si era svegliato alle 5.30 per prendere il treno a Verona e che era d’accordo con la protesta contro il regime sionista, ma che per lui seguire le lezioni era importante.

Un’altra studentessa lavoratrice nei capannelli formatisi in strada raccontava un po’ spaesata alle colleghe che aveva fatto richiesta delle centocinquanta ore per venire a lezione.

Intanto qualche animo si scaldava e qualcuno iniziava a chiedere conto dei motivi per cui il blocco non era stato fatto davanti al rettorato, da tutti i «ribelli» indicato come il grande accusato del sostegno al regime sionista. La risposta laconica degli occupanti è stata che a sociologia «si riduce il rischio», «perché qui non interviene nessuno».

E in effetti guardandosi intorno dopo diverse ore di blocco illegale all’accesso a un bene pubblico, di Digos, carabinieri, polizia e persino vigili urbani non c’era nessuna traccia. Qualcuno ha provato a contattare telefonicamente le forze dell’ordine per chiedere almeno l’identificazione di chi si opponeva fisicamente all’ingresso nel palazzo e la risposta di un disarmato centralinista è stata di fotografare gli occupanti che forzavano l’entrata e portare le foto in Via Barbacovi per sporgere denuncia.

Che il Palazzo di Sociologia sia da sempre il luogo in cui fare convergere i manifestanti più esagitati con lo scopo di controllare meglio la situazione può essere forse una buona argomentazione di ordine pubblico per spiegare l’assenza delle forze dell’ordine. Fatto sta che un edificio che dovrebbe essere il luogo di eccellenza per il dibattito pubblico di habermasiana memoria è diventato uno spazio precluso con la forza a chiunque non la pensi nello stesso modo dei nuovi gendarmi. La sensazione dei, a dire la verità, non troppi docenti che han cercato di convincere gli occupanti a un più sobrio gesto simbolico che non precludesse lo svolgimento delle attività di insegnamento (per esempio l’occupazione dell’Aula Kessler) è stata quella di dialogare con un muro. A niente è servito aggiungere la disponibilità votata in consigli di dipartimento la settimana prima a organizzare anche su proposta degli studenti incontri per approfondire la questione di Gaza in base a confronti basati su argomentazioni storiche scientifiche.

Il risultato è che il vecchio Palazzo di Sociologia è chiuso con la forza.

Come scriveva George Orwell la resistenza al totalitarismo è una questione vitale. Quindi esprimere una protesta contro un genocidio è giusto. Questo non può volere dire però che a Sociologia non può entrare chi la pensa in modo diverso sia rispetto alle modalità dell’occupazione che in astratto anche alle scelte del governo di Israele. Quando le ragioni stanno solo da una parte e si usa la forza per vietare la libera espressione e il libero accesso a spazi che sono di tutti, però, bisogna essere molto chiari: non si può pretendere di avere alcuna legittimità di protestare contro i fascismi, perché si è per primi a essere tali.

* Professore ordinario di Sociologia generale all’Università di Trento