L'editoriale

sabato 15 Luglio, 2023

L’intellettuale che ha unito libertà e critica

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La conoscenza di Franco Rella si muoveva negli spazi infiniti tracciati da Diderot e che pochi, come lui, sapevano viaggiare. Il suo essere interprete di un pensiero nazionale o internazionale, non l’hanno mai disancorato dal suo territorio

Poco meno di vent’anni fa, nel 2006, una collega che si occupava di cultura, Silvia Truzzi, propose un’intervista a Franco Rella per esaminare un fatto di cronaca che ci interrogava sul senso della bellezza, sul suo canone mai statico, sull’inseguire un elemento così superficiale e allo stesso tempo così profondo. Era uscita la ristampa di un suo classico, «L’enigma della bellezza» (Feltrinelli), un viaggio smisurato e genealogico che oltrepassava le nostre possibilità. Terminata l’intervista, quasi asciugata di ogni energia, la collega lamentò la sproporzione tra domanda e risposta, come se quella conversazione avesse evidenziato un difetto di impostazione o di preparazione o di senso del mondo. Quello scambio di suggestioni mi convinse ad approfondirne la lettura in attesa di un’occasione di conoscenza.

Arrivò per un progetto sul Novecento che pubblicammo a puntate nelle pagine culturali del «Corriere del Trentino» in cui Franco ricostruiva il pensiero filosofico ed estetico del secolo breve. Scoprii un intellettuale (e poi un amico) accessibile, esigente, amorevole, enciclopedico. Nel senso che la sua conoscenza si muoveva negli spazi infiniti tracciati da Diderot e che pochi, come lui, sapevano viaggiare. Leggerlo è sempre stato un incanto periglioso perché ti traghettava dal classico al contemporaneo, dall’arte alla letteratura alla filosofia, alla politologia, dimostrando che l’intersezione dei saperi può essere un metodo d’indagine preciso. E con la curiosità di conoscere ogni forma di pensiero critico, embrionale o strutturale, perché poteva contenere l’idea per tenere insieme il mondo o sovvertirlo. Come per la comune passione verso gli studi postcoloniali.
Da bambino aveva scoperto in un armadio di famiglia un giacimento di libri, tra cui alcuni grandi classici. Me lo rammentava, in conversazioni felici, come chiunque di noi avrebbe potuto raccontare una partita di calcio in un campo sterrato.

Lui, invece, si isolava in un muretto, con vista su un orto, e i libri diventarono navi con cui cominciò a conoscere la vita, l’umano e anche l’inumano. E di rimando queste esplorazioni che accumulava sono ritornate in circolo attraverso i suoi libri (saggi, testi filosofici, romanzi, curatele, traduzioni, cataloghi d’arte, eccetera) che pubblicava in modo insaziabile come per aggiornarci le rotte del viaggio, ma anche dell’esilio (concetto a cui ha dedicato più di una riflessione). E che hanno trovato una declinazione (traduzione) in altre lingue a testimonianza di una ricerca tesa a valicare ogni frontiera.

Si era laureato con Gillo Dorfles, ma non aveva maestri né dichiarati né impliciti. Alla Iuav di Venezia aveva insegnato Estetica per anni, condividendo a lungo lo studio con Giorgio Agamben , costruendo un rapporto d’amore con la città e le sue ispirazioni culturali. Ma soprattutto affascinando all’emancipazione e alla libertà le studentesse e gli studenti che frequentavano il suo corso. Come molti intellettuali del Novecento Franco non disgiungeva mai l’esistenza dalla sua dimensione politica. Perché coincidevano e coincidono ancora, anche se non lo riconosciamo più. Ma la sua militanza a sinistra era sempre critica e autonoma. La libertà è stata la cifra del suo agire politico e intellettuale. Non era tipo da diplomazie, aveva un’inclinazione per la parresia (il dire la verità, liberando la parola dalle relazioni di opportunità), lasciò l’università in anticipo perché osservava l’omologazione avanzare e la sperimentazione diminuire. E lui non aveva rendite di posizione da difendere. I suoi libri, la sua magnifica ossessione per la parola («Scrivere? Per Kafka è la terribile voce dell’intimo. La vera scrittura è un inferno privatissimo. Ogni volta un incontro con la morte») sono stati il simbolo del suo peregrinare umano.

Per Feltrinelli aveva curato le collane di filosofia, rimanendo per anni l’autore di riferimento della casa editrice. Ma il suo essere interprete di un pensiero nazionale o internazionale, non l’hanno mai disancorato dal suo territorio. Nella sua attività pubblicistica e di editorialista – l’ultima con «il T quotidiano» – entrava negli interstizi dei mutamenti culturali o politici, richiamandoci all’etica dei comportamenti, ammonendoci – come in un uno dei suoi ultimi editoriali – contro il «politically correct» che, nella letteratura e nelle traduzioni, significa adattare pensieri e costumi (anche profondamente errati) al metro coevo, come se la società non avesse più strumenti di analisi e critica. Se il Museo di arte moderna e contemporanea (Mart) di Rovereto è stato concepito e realizzato lo dobbiamo in una parte non trascurabile a lui. E alla spinta che diede con un convegno in cui portò in città il grande pensatore francese Jacques Deridda. Forse non è mai stato troppo profeta in patria, ma non l’ho mai sentito lamentarsi per questo.

Non potrei indicare un solo autore che lui amasse per le questioni enciclopediche in premessa. Ma se dovessi percepire una sua adesione umana e intellettuale citerei Georges Bataille, pur sapendo che è limitante. Da Omero a Foucault, da Kafka a Blanchot, da Valery a DeLillo ha tratto linfa da tanti autori che poi ha rimodellato, talvolta, in direzione incerta e discontinua. Tra i suoi libri più vicini a noi, «Immagini del tempo. Da Metropoli a Cosmopoli» (Bompiani) e «Territori dell’umano» (Jaca Book) sono quelli che hanno affrontato, quasi sfidato, di più i sentieri delle società in cui fluttuiamo: le nuove identità, l’eredità postcoloniale, le tecnoscienze, la morte come dimensione superabile o aggirabile. Costruiva questi itinerari in una antica abitazione di famiglia, in vicolo Santa Maria a Rovereto, che aveva adattato come studio. Migliaia di volumi, ordinati non secondo uno schema da biblioteca ma di pensiero, vita e politica. Mi sono chiesto come avesse potuto il solaio reggere un simile peso. In una scrivania il suo computer sempre assediato di libri pronti a sversare citazioni.

La libertà di Franco, e quindi la sua urgenza verso le cose della vita, lo hanno mostrato a taluni come elitario. Invece aveva un segno popolare e di semplicità – e la morte non lo cancellerà – che si rintracciava nel suo vivere comune, quotidiano e nella perizia con cui sapeva alternare i registri linguistici. Così i suoi editoriali sono sempre stati formulati in modo fruibile, per un pubblico, senza mai perdere il concetto. Negli ultimi anni i nipoti (Jacopo e Lia), dono della figlia Ginevra, avevano ridestato il suo sguardo – e quello di Sandra, compagna di vita e di pensiero, luce e ombra senza tempo – ad un’altezza che percepisce un altro mondo.
In un’intervista, citando Bataille, Franco aveva affermato che «la morte è il culmine dell’esperienza, ma nel momento in cui essa si compie viene anche perduta». Nelle ultime mail e nei dialoghi telefonici mi aveva espresso il suo dispiacere e disappunto per l’impossibilità di scrivere e sostenere con costanza il nuovo progetto de «il T» a causa del continuo andirivieni dall’ospedale. «Non sono ancora in grado di garantirti una continuità. Per adesso devo accontentarmi di qualche intervento estemporaneo» ammise in una delle ultime mail.
Non ti preoccupare Franco, prenditi il tempo necessario. Io ti aspetto, sempre.