L'intervista

sabato 4 Ottobre, 2025

Le due vite di Vito Alfieri Fontana, da venditore d’armi a volontario sminatore: «Mio figlio mi chiese se fossi un assassino e ho cambiato vita»

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Il titolare della Tecnovar, ha prodotto e venduto 2,5 milioni di mine. Poi è andato in Bosnia a liberare il territorio: il suo racconto oggi alle 15.30 al Wired Next Fest

Vito Alfieri Fontana trent’anni fa ha cambiato sponda trasformandosi da ingranaggio preciso e pignolo della macchina della guerra a ingranaggio appassionato di quella della pace. Fabbricava armi, mine antiuomo per la precisione, con l’azienda di famiglia, ed è finito per abbandonare il sentiero già tracciato – facile, remunerativo – per zigzagare via verso orizzonti più complessi, dove trovare però serenità di spirito e coscienza.

Patron della Tecnovar di Bari, fondata dal padre Ludovico, ingegnere come lui, trent’anni fa ha chiuso con l’azienda di famiglia e soprattutto ha chiuso con la produzione di mine per mettere invece tutta quella competenza al servizio del fronte opposto ripulendo la Bosnia dalle mine antiuomo nella veste di direttore di cantiere per lo sminamento dei territori. Fra i clienti più importanti l’Egitto, ma la Tecnovar commerciava anche con Stati Uniti, Canada, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Francia, Thailandia. Oggi non esiste più: «Ho visto una foto dall’alto del capannone, chi l’ha acquistato lo ha riempito di pannelli solari». Nessun rimpianto per il passato: «Sono una persona diversa, che devo dire dell’uomo che ero? Sono passati trent’anni, c’è stata la Bosnia e da tre anni, da quando Laterza, che conoscevo, mi ha chiesto di scrivere la mia storia, se mi invitano vado a raccontarla, senza pretese». Vito Alfieri Fontana ha progettato, costruito e venduto due milioni e mezzo di mine antiuomo nella sua prima vita. Nella seconda ne ha tolte migliaia, per quasi vent’anni, tutte lungo la dorsale minata dei Balcani, dal Kosovo alla Serbia fino alla Bosnia, rimettendo in funzione abitazioni, scuole, fabbriche, terreni agricoli, acquedotti e stazioni ferroviarie. Nella sua prima vita Gino Strada lo rimproverò al telefono per quella sua produzione indegna, per i danni che le sue mine producevano nel mondo, attivisti e persone qualunque lo insultavano pubblicamente e gli inviavano pacchetti in azienda che contenevano una scarpa sola, a ricordargli le conseguenze dell’efficienza di ciò che produceva, ma la crisi di coscienza è arrivata quando a otto anni suo figlio, con i cataloghi della Tecnovar in mano, gli chiese, con la candida e tagliente precisione di cui sono specialisti i bambini: «Sei un assassino?». Così cambiò tutto. Oggi racconta la sua storia al Wired Next Fest, alle 15.40 al Teatro Zandonai, nel talk “Non c’è pace con le mine” affiancato da Claudio Kofler, Ad di Nummus.Info.

Direttore di cantiere su un territorio minato. Cosa fa di preciso?
«È un cantiere come quello stradale, c’è un direttore lavori, un capocantiere, i capisquadra e ci sono gli sminatori che sono divisi in corridoi larghi 2 metri ciascuno e avanzano con le aste di sondaggio: e si continua così per una ventina d’anni!»

Vent’anni? Tanto ci vuole a sminare un territorio?
«Dipende dalle risorse che ci sono, ed è una curva esponenziale: in 10 anni con le giuste risorse, che nei cantieri della Nazioni Unite ci sono di solito, si arriva a mettere al sicuro l’80% delle aree importanti, ci vogliono però 20 anni per arrivare al 95%. Lo scopo delle operazioni di sminamento non è infatti “mine zero” ma “vittime zero”: tant’è che le Nazioni Unite intendono un’area “mine risk free” se il numero di incidenti in cinque anni è sotto i due, considerando i casi involontari. La Bosnia dopo vent’anni non ha più questo problema. Dove si sono fatti grandi progressi è l’Angola, il Mozambico che è stato dichiarato mine free, la Namibia pure. L’importante è avere un programma e risorse, le tecnologie oggi sono molto evolute. In Kosovo avevamo velocità di sminamento molto diverse, siamo passati da 1 a 100 rispetto a quei tempi. Oggi si fanno campionamenti statistici, le tecniche di avvicinamento al terreno sono molto più sofisticate e molto più economicamente valide».

È utopico immaginare di smantellare l’industria bellica?
«Le armi in una certa misura servono per come è il mondo oggi, bisogna guardare in faccia la realtà, ma andrebbero controllate dagli Stati non lasciate all’imprenditoria privata. In Italia potremmo benissimo fare a meno: vale poco per il nostro Pil, gli addetti sono altamente specializzati, si reimpiegherebbero facilmente, si potrebbe tenere solo una industria bellica controllata dallo Stato, la cui responsabilità sia collettiva, di chi vota i propri rappresentanti. La politica deve prendersi la responsabilità degli armamenti».

Ha ancora contatti con quel mondo?
«No. Una volta ho avuto uno scambio di battute con una persona della famiglia Beretta, uno scambio cortese di opinioni. Non ho cercato di convertire nessuno anche perché il mio settore era particolare, le mine sono considerate peggio delle pistole, non a torto, quindi c’è anche quel discorso là quando si cerca di smuovere la coscienza di un fabbricante d’armi: quello che facevo io è considerato peggiore di quanto fanno altri».

La guerra è anche oggi, anche se dall’altra parte, un po’ il suo universo di competenza. Che ne pensa di Palestina e Ucraina?
«Sono due cose diverse. In Ucraina c’è una guerra, con le regole della guerra: scambio prigionieri, concessioni, diplomazia e via dicendo. In Palestina non è una guerra, è un atto di vendetta e con la vendetta non so come riusciranno ad uscirne. Non penseremo mica che i figli di Hamas non continueranno, all’infinito, e i figli degli israeliani ammazzati non andranno avanti? Certo che lo faranno, quando c’è di mezzo la vendetta è così: lì ci vuole il pacificatore, quello che ti ferma, che anche davanti ad un atto terribile impedisce l’escalation, ti fa ragionare che la vendetta non risolve nulla. Don Benzi un giorno era su un palco con me e disse: “I morti non vogliono vendetta” ecco, questa mentalità va portata avanti, non quella della fedeltà al proprio popolo a tutti i costi, anche quello di un massacro infinito».

È sceso in piazza ieri?
«Le manifestazioni sono per i giovani, sono bellissimi, pieni di ideali. Se fossi stato più in salute sarei andato con la Flottilla, mi sarei imbarcato con loro, hanno fatto una cosa grande e bella. Per i cortei, vede, io sono uomo del fare: preferisco andare a sminare un terreno, è più nelle mie corde».