L'analisi

domenica 13 Agosto, 2023

L’allievo di Basaglia: «Colpevoli quelli che non hanno curato Nweke»

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Peppe Dell’Acqua interviene sul caso che ha sconvolto Rovereto: «Si poteva prevedere? No, ma quell’uomo poteva essere aiutato»

«Non si poteva fare niente? Basta con questo ritornello. È falso. I servizi psichiatrici e noi psichiatri siamo pagati (poco!) per curare le persone e garantire un buon andamento delle relazioni sociali. Non siamo psicoanalisti chiusi nella loro stanza che ricevono su appuntamento, dobbiamo occuparci anche di quello che succede fuori, andando noi incontro a chi ha bisogno del nostro aiuto. Ma prima di tutto non posso non dirle del sentimento di amarezza per una morte così assurda e insensata, dire della mia vicinanza al dolore degli amici e dei familiari, dire del fallimento che avverto». Peppe Dell’Acqua è uno dei più importanti psichiatri italiani, figlio di quella riforma Basaglia che lui conosce bene. Di Basaglia è stato un collaboratore, e per 17 anni ha diretto il Dipartimento di salute mentale di Trieste.

Professore, quel ritornello che si ripete spesso allargando le braccia, quel «non di poteva fare niente» la disturba parecchio. Ma nei fatti, cosa di poteva fare?
«Di eventi drammatici come questo ne sono accaduti, ne accadono. Se per un momento si pensa alle cronache americane… il nostro Paese per accadimenti come questo non è nei primi posti. Ma lei mi domanda di quanto è accaduto qui, ora, circoscrive un fatto. Si poteva fare tanto. C’è una legge che vuole garantire la cura a persone che non hanno consapevolezza di malattia. È una legge dello Stato che non può e non deve essere disattesa con tanta leggerezza. Le persone hanno bisogno di essere curate; è un loro diritto. E la legge mette in campo procedure tanto semplici quanto necessarie, anche per poter evitare che persone malate non diventino poi mostri, oggetti esplosivi come quando commettono un reato o creano disturbo. Le persone che attraversano l’esperienza dolorosa e rischiosa del disturbo mentale possono essere sempre aiutate. Il dispositivo messo in campo dalla legge 180 vuole perseguire questo obiettivo».

C’è chi dice che queste cose sono imprevedibili.
«Un mondo in cui non succede nulla di imprevedibile non riesco nemmeno a immaginarlo, ma questo è un altro discorso. Il problema non attiene alla prevedibilità ma a quanto si può chiamare il montaggio della crisi. Dalla sofferenza muta e bisbigliata all’urlo accadono cose, rotture, passaggi che le istituzioni, i servizi di salute mentale devono imparare ad ascoltare. Per evitare che si arrivi all’irreparabile. Occorre pensare a servizi aperti 24 ore, accessibili, capaci di accogliere ed essere nei conflitti di mediare, di fare reti».

Diceva infatti che si poteva fare qualcosa. Ma alcuni suoi colleghi qui in Trentino dicono che non ci sono strumenti adatti, che tra un ritorno ai manicomi e il «liberi tutti» del post-Basaglia si dovrebbe trovare una terza via. Lei cosa pensa?
«Beh, il “liberi tutti” è una volgarità, una stupidaggine. Un luogo comune per nascondere tutte le sciatterie, le miserie organizzative delle aziende, la continua riduzione delle risorse umane e materiali, la mancanza di formazione continua. Il problema è che non si è fatto abbastanza, che gli strumenti a disposizione, le leggi i risultati delle buone pratiche, non vengono usati. Io conosco poco questa storia, per quello che ho letto mi sembra di capire che la persona è stata vista più volte dai carabinieri, ed è stato visitato anche in carcere, dai servizi dell’azienda sanitaria. Ci sono stati mille momenti in cui far partire una segnalazione, organizzare quanto meno un accertamento sanitario obbligatorio (lo prevede sempre quella legge dello Stato che ora sembra non esistere, cancellata dai potentati delle psichiatrie, dalla corsa al privato, dalla ostilità ideologica delle accademie). Occasioni per porsi dei dubbi sulla necessità che questa persona dovesse essere curata, presa in carico, aiutata a orientarsi ce ne sono state. È passato dalle forze dell’ordine, dalla magistratura, dai servizi sociali, dal carcere, dalle panchine della stazione. Non posso non pensare a un sottrarsi intenzionale del servizi e delle istituzioni».

Sembra infatti che sia stato più d’uno il campanello di allarme.
«Bastava dire questo: c’è una persona che ha bisogno di essere curata. E il servizio di salute mentale avrebbe dovuto prenderne atto. Senza dubitare della richiesta di attenzione fatta da questo o da quello. E accertare».

Ma se una persona non vuole farsi curare, non rimane altro che il trattamento sanitario obbligatorio. Ed è sufficiente?
«Certo che sarebbe sufficiente! Il trattamento sanitario obbligatorio nel parlare comune è diventato una sanzione. Non poteva che essere così, è stato stravolto dalle pratiche violente in quasi tutto il Paese. Si tratta di un dispositivo che se ben attuato vuole garantire il diritto della persona alla cura. La sua dignità, la sua libertà in costanza dell’obbligo alla cura. Un obbligo che a mio avviso, obbliga anche il servizio e tutte le istituzioni. Intendo il Tso come un obbligo alla negoziazione. Non si tratta di un’azione complicata. Significa far visita a una persona, cercarla se necessario, raccogliere il suo bisogno, fare una relazione al sindaco e chiedergli di emettere l’ordinanza del trattamento. Non posso non ricordare che il Tso non è un mandato di cattura. Ripeto, è un diritto della persona accedere alle cure, anche quando non è nelle condizioni di averne consapevolezza. Insomma, una donna, un uomo che dà in escandescenza, che come dicono gli psichiatri ha un discontrollo degli impulsi, è anche una persona con una storia magari dentro una vita sconnessa fatta di miserie relazionali, frustrazioni, fallimenti, dipendenza, da marginalità sociale eccetera, ha bisogno di cure. Anche una persona che non ha nozioni di psichiatria lo può capire. E invece è la pericolosità che si cerca di mettere al primo posto, che prende il sopravvento e totalizza la persona».

L’uomo è passato dalla psichiatria del carcere per tre volte, segnalato come alcolista, dipendente da sostanza. Ma non è mai stato preso in carico.
«Il problema è che spesso si fa di tutto per sottrarsi. Gli psichiatri dicono che non è compito loro intervenire se la questione non è prettamente psichiatrica, i carabinieri dicono che non possono fare nulla finché qualcuno non uccide qualcuno. Ma cosa vuol dire che la questione sia prettamente psichiatrica? Le psichiatrie dei farmaci, dei manuali diagnostici, delle pericolosità vogliono occuparsi del disturbo mentale “puro” ben definito e inscatolato. Le persone fuori dalle scatole invece sono “spurie” esprimono sempre bisogni, sentimenti, emozioni, ostilità, passioni, rabbia, conflitti che turbano la purezza cristallina agognata da queste psichiatrie».

Quando succede un fatto come quello avvenuto la settimana scorsa a Rovereto, di chi è la colpa?
«Cosa hanno fatto i servizi di psichiatria, sociali, carabinieri, magistrature? Tutti dicono di aver fatto quanto di loro competenza e hanno passato la palla; una sorta di girone infernale, un manicomio diffuso dove la persona dal pronto soccorso passa a un ambulatorio, e poi a una cooperativa e poi alle panchine del giardino pubblico e poi ai servizi sociali e poi al carcere e ancora al un pronto soccorso e il giro ricomincia. Tutti hanno fatto qualcosa di loro competenza, nessuno si è fatto carico di quell’uomo, di quell’esistenza. Tutto congiura a costringere le persone in un vuoto, lontani dallo sguardo, in una sorta di periferia dell’anima. Ma c’è sempre qualcuno che rompe il cerchio e ricompare inaspettato e urlante al nostro sguardo. Ma i servizi di quante e quali risorse dispongono? E i servizi di salute mentale in particolare sempre più impoveriti dall’assenza di una politica governativa e all’ultimo posto nei bilanci delle politiche regionali? E riescono a fare rete e riconoscersi con tutti gli snodi di un welfare sempre più penalizzato? È qui la responsabilità; è tutta qui».

Su questo punto, la questione è solo di risorse o anche culturale?
«È chiaro che non bastano solo le risorse economiche. Psichiatri, psichiatre, personale infermieristico, assistenti sociali, tecnici e tecniche della riabilitazione, dovrebbero essere spinti ad andare in strada, incontro alle persone, nelle case, nei rioni. Ma non si fa, non si fa più».

Tornando al caso di Rovereto, era possibile considerare come pericolosa la persona che ha ucciso Iris Setti prima che la ammazzasse?
«Non lo so. Poteva esserlo o non esserlo. Tutto dipende dalla situazione in cui le persone vivono e dalle loro relazioni. Vivere dolorosamente l’esperienza di un disturbo mentale non vuol dire di per sé pericolosità. Insisto, in questa storia come in tutte le altre che ho incontrato in 50 anni di lavoro la via d’uscita alla nostra portata è la priorità assoluta della cura: è da qui che bisogna ricominciare. Per capire qualcosa in più andava valutata la vita dell’uomo che poi ha messo in atto questo efferatissimo delitto, andava letta la sua storia, collocandola dentro il suo percorso di vita. Invece, in genere, è più semplice ridurre tutto alla psichiatria della pericolosità, alla psichiatria del farmaco e della oggettivazione».

Si poteva in qualche modo prevedere quest’azione?
«No, non si poteva prevedere, ma si poteva curare. E quest’uomo non è stato curato. Il suo malstare era evidentemente dimostrato dal suo comportamento, dai suoi fallimenti, dall’abbandono della sua famiglia, dei suoi figli, dal non sapere controllare le sue emozioni, le sue pulsioni, tenere un minimo di equilibrio nelle sue relazioni, tutto questo ha a che fare con il disturbo mentale, anche se le psichiatrie non colgono in questa quella purezza di cui dicevo. La storia di quell’uomo andava ascoltata, raccolta, compreso il vuoto della sua esistenza, il suo bisogno di cure. Nei fatti, non è stato ascoltato, e non possiamo non ritenerci tutti colpevoli. E colpevole è chi non ha segnalato il “matto” in strada e chi non è intervenuto con tutti gli strumenti che la legge e le buone pratiche mettono a disposizione. Era nostro compito prenderci cura di lui, quindi di quello che è successo siamo tutti in qualche modo responsabili».

Si ha quasi la sensazione che alla via della cura psichiatrica si preferisca quella penale anche in presenza di soggetti con disagio psichico. E che anche i servizi psichiatrici abdichino al loro ruolo. Ieri abbiamo ricordato su questo giornale la storia di un ragazzo schizofrenico di vent’anni denunciato dalla madre per violenza domestica su consiglio dello psichiatra. È rimasto in carcere otto mesi, poi rilasciato dal giudice perché «incompatibile con il regime di detenzione». In cella, aveva provato a cavarsi gli occhi con un cucchiaio.
«Mandare in carcere un ragazzo di vent’anni con una patologia psichiatrica, invitando la madre a denunciare è una pratica incomprensibile e crudele. E non è certo risolutiva di un bel niente. Ma dove siamo arrivati? Quella madre andava aiutata, andava vista tutti i giorni, sostenuta. Ci sono mille modi per intervenire. La povertà, le profonde diseguaglianze sociali stanno allentando quella tensione morale, quel senso di solidarietà, di riconoscimento reciproco che pure ha sostenuto in tanti momenti l’evoluzione del nostro Paese. Ora frammentazione, individualismo, isolamento minano il senso dell’umano che solo potrà ridare forza e credibilità alle pratiche del prendersi cura. Ma questa è la miseria in cui si sono precipitate anche le psichiatrie, che riducono tutto a diagnosi, pericolosità, farmaco, dimenticando i contesti, la persona, la cura».