Cultura
giovedì 18 Dicembre, 2025
La surreale Casa Galina ora avvolta dalle sterpaglie, il «Castello» di Martignano, la nave di Meano e quella pazza idea della torre in piazza Battisti: ecco l’eredità dell’archietetto Salvotti
di Davide Orsato
Le opere firmate dal progettista scomparso a 94 anni. Portò in città lo stile postmoderno
Se c’è un edificio, a Trento, capace di catturare lo sguardo, vuoi per la sua bizzarria, vuoi per le forme non convenzionali, vuoi per i colori accesi, tanto da diventare un punto di riferimento per le indicazioni stradali, allora è probabile che l’abbia progettato lui. L’edificio «a scacchi» con guglie alla ghibellina a Martignano, ironicamente battezzato «Il fantasma del castello»? Suo. La casa a forma di nave di Meano che si slancia imponente dalla collina? Suo. Il «cubotto» bianco in piazza Silvio Pellico? Suo. Il condominio «rosso e nero» in corso Buonarroti? Suo. Ma, soprattutto, è «suo» il landmark della collina di Trento, la facoltà di Ingegneria di Mesiano, nata come struttura militare austriaca, poi diventata sanatorio, completamente trasformata tra gli anni ’80 e ’90: classica fuori, metafisica dentro, con una gestione allo stesso tempo monumentale e anticonvenzionale degli spazi.
È un elenco, parzialissimo, dei lavori di Giovanni Leo Salvotti de Bindis, tra i più celebri e produttivi architetti trentini del secondo Novecento. Salvotti è morto martedì 16 dicembre all’età di 94 anni. Trentino nell’anima, lo si vedeva spesso, anche negli ultimi anni, camminare per le vie del giro al Sas (inclusa piazza Battisti, dove aveva lanciato l’idea – non si sa quanto provocatoria – di costruire una torre alta 34 metri) con l’inconfondibile basco in testa. Era un discendente della famiglia Salvotti, originariamente von Eichenkraft und Bindeburg, che vede il capostipite in Antonio, il giudice istruttore dell’Impero austro-ungarico che a Milano processò, tra gli altri, Silvio Pellico. Abitava nella villa di famiglia all’imbocco della Gardesana di Trento.
Dopo il liceo a Trento, Salvotti si iscrisse ad Architettura a Firenze, dove si laureò nel 1956 con un altro grande architetto trentino, Adalberto Libera, come relatore. Dopo un periodo di lavoro a Roma, proprio accanto a Libera, rientrò a Trento, affiancando all’attività professionale l’insegnamento negli istituti tecnici.
A partire dagli anni ’60, la grande stagione creativa, nel segno, come lui lo descrisse, del «plasticismo nazionale». «Invece di mettere in evidenza le strutture, l’acciaio, il cemento – spiegava – ho cominciato a comporre i miei progetti con forme esclusivamente figurative e, grazie a una committenza privata, ho potuto costruire diversi edifici». Senza trascurare elementi surrealisti: ne è un esempio Casa Galina a Calceranica, oggi disabitata e sepolta dalla vegetazione.
«Le sue opere – dice il collega Raffaele Cetto, che a Salvotti ha dedicato un libro – rimangono un invito al risveglio dell’essere architetto, a non ridursi a essere bravi tecnici, ma a far emergere la singolarità, ad amplificarla verso l’universo, perché, come insegna Todorov, sarà la bellezza a salvare il mondo, non la tecnica».
Lo ricorda anche il sindaco di Trento Franco Ianeselli: «La città perde una delle sue menti più visionarie, originali e creative, una voce riconoscibile e spesso critica che ha dato un contributo importante alla crescita di Trento. Aveva un’idea originale della città di Trento: la vedeva come un teatro naturale, con la collina a fare da gradinata e il palcoscenico verso il fiume».
I funerali si terranno sabato alle 11 nella chiesa di Sant’Apollinare di Piedicastello.