L'esperto

domenica 30 Luglio, 2023

La lezione di Solomon Gofie: «Il Corno d’Africa rinasce grazie ai suoi popoli»

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Il professore è stato ospite a Trento della Summer School del centro Jean Monnet: «I nazionalismi hanno lasciato spazio al senso di comunità»

Il Corno d’Africa è una regione importantissima a livello geopolitico: situata all’estremità orientale del continente africano, comprende diversi paesi tra cui l’Etiopia, l’Eritrea, la Somalia, il Gibuti e parte del Sudan e del Kenya. Si tratta dunque di un’area grande, caratterizzata da una storia complessa di conflitti, instabilità politica, tensioni etniche e sfide economiche; la lotta per le risorse alimentari e la sicurezza è al centro di queste ultime.
Al contempo, la disponibilità di terre fertili e il potenziale per lo sviluppo agricolo hanno attirato l’attenzione degli investitori stranieri, a cui si è aggiunta, di recente, la scoperta di giacimenti di petrolio e gas, che ha acuito la competizione, anche internazionale, per il controllo delle risorse dell’area.
Quali sono dunque le direzioni di politica internazionale intraprese dai Paesi di quest’area geografica?
Ne abbiamo parlato con Gofie Solomon, politologo, professore all’Università di Addis Abeba, ospite a Trento durante i giorni della Summer School «Geopolitica in un mondo Globalizzato», promossa e organizzata dal centro di eccellenza Jean Monnet e Da Vincent della Sala, professore di scienze politiche dell’Università degli Studi di Trento.
Professore, il Corno d’Africa -qui in Europa- è sinonimo di instabilità. Come sta cambiando il quadro geopolitico di questa regione?
«L’instabilità è ormai una caratteristica associata al Corno d’Africa da tempo e per ragioni note: negli anni 80 e 90 ci sono state guerre civili in Etiopia, Somalia e Sudan, nonché il conflitto interstatale tra Eritrea ed Etiopia. All’inizio del nuovo millennio, però, il Corno d’Africa ha intrapreso un lento ma inesorabile processo di stabilizzazione, con l’Etiopia che è emersa come motore di crescita economica dell’area e con il riavvicinamento tra Etiopia ed Eritrea. Ultimamente c’è stato un rallentamento di questo processo, a partire dalla guerra del Tigray iniziata nel 2020, ma alcuni segnali di cambiamento credo siano irreversibili».
Quali sono i cambiamenti più significativi?
«Innanzitutto il Corno d’Africa è una zona molto popolosa: parliamo di oltre 300 milioni di persone che la abitano, una grande varietà di lingue e culture parlate, diversi stati-nazione e infine una demografia molto diversa da quella europea. In Etiopia, oltre 80 milioni di persone hanno meno di trent’anni: si tratta dunque di un’area del mondo giovanissima.
È dunque cambiato il modo che gli abitanti del Corno d’Africa hanno di percepirsi. Un tempo il problema principale era lo stato-nazione e i confini nazionali, lungo i quali si sono combattute le guerre e sono nati i conflitti. Ma oggi gli stati hanno perso la loro forza: al loro posto è venuta a consolidarsi l’idea di comunità. Da “stato-centrica”, potremmo dire, la politica nel Corno d’Africa è diventata “popolo-centrica”. In poche parole i processi decisionali avvengono sempre più all’interno delle comunità locali, che poi influenzano la politica a livelli più alti, il che permette di rivedere l’idea di giustizia sociale e di promuovere un processo decisionale più partecipativo».
Quali sono le cause di questo cambiamento?
«Sono cambiati gli stili di vita, il modo di pensare e le aspettative delle persone, specie le più giovani, che sono comunque la maggioranza. La comunicazione è potenziata al punto che l’informazione corre ormai veloce da una parte all’altra, influenzando le scelte delle persone, e portando modelli politici, culturali e sociali molto diversi.
I processi migratori anche hanno determinato nel tempo una vera e propria rivoluzione culturale in quest’area. La migrazione è in fondo la messa in pratica delle relazioni internazionali non solo nel processo che porta una persona da un punto all’altro del mondo, ma anche per ciò che succede di rimando, nel paese di provenienza. È un po’ come se la partenza di chi va via determinasse le prospettive anche di chi rimane. Così le comunità, pur essendo locali, sono diventate anche internazionali».
È cambiato il rapporto con l’Occidente?
«In generale è aumentato il livello medio di istruzione, il che ha contribuito a fare crescere un certo diffuso criticismo nei confronti delle potenze, non solo occidentali, come era tradizionalmente, ma anche globali, come la Cina, la Russia e i Paesi del Golfo, sempre più attirati dal controllo dell’area. C’è una maggiore consapevolezza a livello politico locale sul fatto che la corsa al controllo dell’area da parte di potenze così diverse tra loro rappresenta un’arma a doppio taglio: le rivalità straniere per il controllo del Corno d’Africa potrebbero ritardare o annullare il processo di stabilizzazione, perché magari sono interessate a fomentare i conflitti; allo stesso tempo però, le relazioni internazionali giocano un ruolo fondamentale per questo stesso processo: difficile creare stabilità e sviluppo senza il consenso della comunità internazionale. Sono due lati della stessa medaglia, ma a oggi non sappiamo quale dei due prevarrà».