La rubrica
giovedì 26 Giugno, 2025
Il viaggio spaziale targato Pixar di «Elio», la terza tappa (horror) di «28 anni dopo» e il capolavoro (4K) di David Lynch: ecco cosa vedere
di Michele Bellio
Una perla in streaming: cinquant'anni dopo non perdetevi «Lo squalo» di Steven Spielberg

ELIO
(USA 2025, 99 min.) Regia di Adrian Molina, Domee Shi, Madeline Sharafian
Orfano di entrambi i genitori, l’undicenne Elio Solis (nomen omen?) vive con la zia Olga, maggiore dell’esercito statunitense che, accantonato il sogno di diventare astronauta per occuparsi del nipote, monitora i detriti spaziali in orbita attorno alla Terra. Affascinato dalla storia della sonda Voyager, che vaga da anni nello spazio alla ricerca di altre forme di vita, Elio sogna di farsi rapire dagli alieni, convinto che là fuori troverà finalmente il proprio posto. Nonostante il legame con la zia — che cerca di distrarlo dallo spazio — cominci a incrinarsi, Elio insiste nei suoi esperimenti, finché ottiene ciò che vuole: una navicella extraterrestre lo conduce alla sede del pacifico Comuniverso. Qui però il suo arrivo è frutto di un equivoco: gli altri ambasciatori lo credono il leader del suo pianeta e gli affidano l’incarico, tanto prestigioso quanto pericoloso, di negoziare con Grigon, un tiranno cosmico temuto da tutti. Elio è spaesato, ma l’incontro con il tenero Glordon, figlio del crudele Grigon, cambierà le sorti della missione. Al ventinovesimo lungometraggio, la Pixar torna con un soggetto originale che — pur con varie debolezze — riesce a distinguersi rispetto alla produzione recente, afflitta da sequel e spin-off dal rendimento altalenante. Se si escludono titoli come Inside Out, Coco e Luca, i risultati degli ultimi quindici anni non hanno retto il confronto con l’epoca d’oro dello studio (1995-2010), in cui ogni film sembrava un capolavoro. Elio non è immune da difetti, soprattutto in fase di scrittura: la necessità di spiegare ogni passaggio, anche i più intuitivi, rivela una scarsa fiducia nella capacità degli spettatori (anche giovanissimi) di cogliere il non detto.
Il rapporto tra Elio e la zia, così come la sua solitudine, vengono ribaditi con eccessiva insistenza, anche nei dialoghi, perdendo parte della forza emotiva. Dove il film funziona a meraviglia è nell’idea di inserire un bambino in un contesto adulto e istituzionale che non gli appartiene, rendendolo — proprio per questo — l’eroe della situazione. Funzionano la descrizione del Comuniverso, un cocktail party perenne tra intellettuali pacifisti pronti ad arrendersi al primo bullo di turno, e soprattutto la relazione tra Elio e Glordon, personaggio memorabile per tenerezza e simpatia. Le trovate intelligenti non mancano: dal clone gomma (con la scena del capello), alla navetta spaziale di Elio con i suoi comandi assurdi, fino al ruolo fondamentale della comunità nerd dei radioamatori. Da segnalare anche l’esilarante Archivio universale che vorrebbe inutilmente spiegare a Elio il senso della vita. Tecnicamente la Pixar raggiunge nuove vette: ma più che per il design alieno, il film colpisce per immagini come quella della spiaggia terrestre illuminata dalla Luna.
Il tono è quello della speranza, della collaborazione tra esseri diversi, siano essi provenienti da altre galassie o da altre culture terrestri. Il motto “non siete soli” racchiude il senso ultimo del film. In tempi difficili, è un messaggio tanto semplice quanto necessario — soprattutto per i più piccoli, ma non solo. E il messaggio finale di relazione genitoriale emoziona sia nella sua versione più canonica, sia nella commovente controparte aliena.
28 ANNI DOPO
(28 Years Later, UK/USA 2025, 115 min.) Regia di Danny Boyle, con Alfie Williams, Ralph Fiennes, Jodie Comer, Aaron Taylor-Johnson
VIETATO AI MINORI DI 14 ANNI
Terzo episodio della saga horror iniziata nel 2002 con 28 giorni dopo e proseguita nel 2007 con 28 settimane dopo, 28 anni dopo segna in realtà l’inizio di una nuova trilogia e non contiene legami espliciti con i personaggi dei due film precedenti. Alla regia torna Danny Boyle, autore del primo capitolo, che ha scritto il film insieme ad Alex Garland, ricostituendo di fatto il team originario, con il coinvolgimento anche di Cillian Murphy come produttore esecutivo.
Sono trascorsi quasi trent’anni dalla fuga del virus modificato della rabbia da un laboratorio britannico. La Gran Bretagna è stata isolata dal resto del mondo per impedirne la diffusione e oggi il suo territorio, abbandonato e in rovina, è occupato da infetti e da piccole comunità sopravvissute che cercano di ricostruire una parvenza di società, in una sorta di regressione preindustriale. Una di queste comunità si trova sull’isola di Lindisfarne, accessibile solo per poche ore al giorno tramite una strada che emerge con la bassa marea.
Qui vive il dodicenne Spike, figlio di un guerriero incaricato di cacciare gli infetti sulla terraferma e di procurare risorse. La madre è malata e afflitta da misteriose crisi d’identità. Per Spike è arrivato il momento del rito di passaggio: la sua prima spedizione all’esterno con il padre e la prima uccisione. Il ragazzo riesce nell’impresa, ma durante i festeggiamenti successivi il rispetto per il padre si incrina: troppe le bugie e i segreti. Quando scopre che sulla terraferma vive ancora un medico, decide di fuggire con la madre per cercare aiuto. Visivamente potente, 28 anni dopo colpisce per la sua messinscena immersiva e per la gestione delle scene d’azione, con le rapide e violente aggressioni degli infetti che mantengono viva la tensione.
Funziona in particolare la prima parte, che costruisce con materiali eterogenei — tra cui spezzoni tratti dall’Enrico V di Laurence Olivier — un mondo nuovo, dominato da derive culturali inquietanti, dove si mescolano nazionalismo, superstizione e sopravvivenza. E il racconto di formazione del giovane protagonista ha la forza asciutta di un classico. Meno riuscita la seconda parte, che rallenta il ritmo per concentrarsi su una riflessione più astratta, quasi filosofica, esplicitata nella breve ma intensa apparizione di Ralph Fiennes, portatore del doppio memento mori / memento amoris. La narrazione chiude il cerchio su un finale aperto, pronto ad accogliere i capitoli futuri, lasciando però lo spettatore con un senso di insoddisfazione. Tra le sequenze più riuscite: il primo inseguimento ai danni di padre e figlio, la suggestiva fuga notturna attraverso una chiesa distrutta e l’inquietante scena del treno, dove prende forma un nuovo spunto narrativo che promette sviluppi affascinanti per il prosieguo della saga. Straordinario il lavoro di trucco ed effetti sugli infetti, ora differenziati in categorie, dai “bassi-lenti” ai terribili Alpha, potenziali leader di una nuova specie forse destinata a sopravvivere alla propria maledizione. Pur con qualche debolezza strutturale, 28 anni dopo è un film visivamente ricco e tematicamente denso, capace di riportare al centro dell’attenzione l’eterno ritorno della violenza nella storia dell’umanità.
EVENTO SPECIALE
THE ELEPHANT MAN – 4K
(UK, 1980, 124 min.) Regia di David Lynch, con John Hurt, Anthony Hopkins, Anne Bancroft
Distribuito in sala nell’ambito della rassegna «The Big Dreamer» in una nuova, meravigliosa versione 4K, The Elephant Man è uno di quei film che meritano — anzi, esigono — di essere rivisti sul grande schermo. A più di quarant’anni dalla sua uscita, il capolavoro di David Lynch (candidato a 8 premi Oscar) conserva intatta la sua forza emotiva e stilistica, rivelandosi ancora oggi un’opera capace di interrogare profondamente lo sguardo dello spettatore. Tratto dalla vera storia di Joseph (John) Merrick, affetto da una gravissima deformazione fisica e sfruttato nei baracconi dell’Inghilterra vittoriana, il film racconta l’incontro tra l’uomo e il dottor Frederick Treves (un misuratissimo Anthony Hopkins), che lo strappa alla violenza del circo e cerca di restituirgli dignità. La grandezza del film non sta solo nella pietà verso la sofferenza, ma nella lucidità con cui mette in scena l’angoscia dell’essere umano consapevole del terrore che suscita negli altri. Lynch — al suo secondo lungometraggio dopo Eraserhead — compone una tragedia classica fondendola con elementi horror, ma lo fa con un rigore narrativo che rende l’opera accessibile a tutti, anche a chi non è familiare con la poetica più sperimentale del regista. Eppure, già qui, i temi fondanti del suo cinema sono nitidamente presenti: il sogno e la deformità, la violenza nascosta sotto il perbenismo, l’identità frantumata, il desiderio di essere visti e compresi. L’incipit visionario e la conclusione onirica incorniciano una narrazione limpida e dolorosa, resa ancora più potente dallo splendido bianco e nero di Freddie Francis, che regala profondità quasi scultorea ai volti e agli ambienti.
La ricostruzione storica è impeccabile e il trucco prostetico, applicato ogni giorno per oltre sette ore a John Hurt — in una performance straziante e dolcissima — diventa un elemento non solo tecnico, ma poetico: una maschera che rivela, anziché nascondere. Il finale resta uno dei più struggenti della storia del cinema: John, stremato dal peso della sua anomalia e dalla consapevolezza del suo destino, fa una scelta semplice e coraggiosa. In quel gesto minimo, in quella resa consapevole, c’è tutta la ricerca di un’umanità possibile. E tutto il dolore, ancora oggi, di uno sguardo che continua a interrogarci.
STREAMING – PERLE DA RECUPERARE
LO SQUALO
DISPONIBILE SU NOW TV
(Jaws, USA 1975, 124 min.) Regia di Steven Spielberg, con Roy Scheider, Robert Shaw, Richard Dreyfuss
Esattamente cinquant’anni fa, un giovane Steven Spielberg cambiava per sempre la storia del cinema con Lo squalo, primo vero capolavoro di una carriera destinata a ridefinire l’immaginario collettivo. Ma Lo squalo non fu solo l’esordio folgorante di un talento già pienamente consapevole dei propri mezzi: fu una cesura, un punto di svolta. L’alba dei blockbuster estivi, l’inizio di una nuova stagione per la New Hollywood, un’opera che ancora oggi – mezzo secolo dopo – continua a interrogare il pubblico, spaventarlo, divertirlo e metterlo a nudo. Il merito principale è da attribuire a una regia di rara lucidità e intelligenza. Spielberg costruisce la tensione come un direttore d’orchestra: alterna spaventi improvvisi a lunghi silenzi, gioca con l’attesa e con ciò che non si vede, orchestrando ogni elemento con un ritmo ineguagliabile. La colonna sonora di John Williams – due sole note ripetute in crescendo – è diventata parte della cultura pop, ma è soprattutto uno strumento di regia, usato per manipolare la percezione dello spettatore con sadica precisione. Le riprese che alternano squali veri a modelli animatronici (spesso malfunzionanti) avrebbero potuto affossare il film. Spielberg invece le trasforma in un punto di forza: il mostro si mostra poco, ma incombe sempre.
L’invisibilità dello squalo amplifica la minaccia, la rende psicologica prima che fisica. Ed è proprio in questo che il film trova il suo valore più profondo: Lo squalo non è solo una storia di sopravvivenza, ma anche un’allegoria. Il male può assumere molte forme, e spesso la paura che genera è più potente della sua reale presenza. All’interno di questo scenario, la critica alla società americana è evidente: il sindaco che vuole nascondere la verità per non danneggiare l’economia turistica, la comunità che rifiuta di vedere il pericolo, la tensione tra responsabilità collettiva e interessi personali. È un’America che rimuove i propri incubi finché non è troppo tardi. A controbilanciare l’orrore c’è il trio maschile che affronta lo squalo in mare aperto: Brody, il capo della polizia cittadina che ha paura dell’acqua; Hooper, il giovane biologo marino dalla mentalità scientifica; e Quint, il rude cacciatore di squali segnato dal trauma della guerra. Tre caratteri opposti, tre volti memorabili, tre modi diversi di affrontare l’ignoto. Insieme costruiscono una delle più efficaci rappresentazioni dell’amicizia virile mai apparsa sul grande schermo, fatta di rispetto, scontro, mutua dipendenza e silenzi eloquenti. Lo squalo rimane, a distanza di mezzo secolo, un film perfetto. Un’opera di genere che travalica il genere, capace di mescolare tensione, intelligenza e spettacolo con una maestria rara. Rivederlo oggi significa riscoprire un pezzo vivo di storia del cinema. E ricordare che, prima ancora che regista di mondi fantastici, Spielberg è stato – ed è – un maestro del reale.
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