L'editoriale

mercoledì 12 Aprile, 2023

Il valore delle parole e la memoria di una sorella

di

La morte di Andrea Papi, il tentato femminicidio di Arco, le due donne trovate senza vita a Pergine: raccontare il dolore significa ricomporre la vita, sottrarre all'oblio queste biografie scomparse

In una antica intervista a “The Paris Review” del 1958 Ernest Hemingway affrontava il tema del suo rapporto con la scrittura e quindi con la parola. Spiegava che l’ultima pagina di “Addio alle armi” richiese 39 stesure. Non dissimile da tutte le altre pagine di libri o di articoli che scrisse. Una giornata di lavoro consumava mediamente sette matite. Dietro alla parola c’è la rappresentazione per approssimazioni del mondo, il suo tentativo di ricomposizione per frammenti. Che non spiegano la totalità della vita, ma accendono significati su una parte di questa. Per tale ragione ogni singola parola deve depositarsi nei pensieri e nella realtà fino a coincidere.
La parola ha perduto nel tempo il suo potere unificante. Perché si è inflazionata, e quindi anche democratizzata, e il diritto di parola richiede anche la sua dispersione. Lo assistiamo quotidianamente. Non è nemmeno una questione di condivisione. Una ricostruzione della realtà è sempre parziale, perché magari ispirata ad un universo di valori o ideali, ma può offrire il viatico ad un dibattito, mentre il giudizio inconcludente – poiché non motivato – rivela spesso solo un moralismo o un censo sociale.
La parola è anche l’unica difesa che abbiamo contro il dolore. Non lo esorcizza e non lo addomestica. Il dolore è più profondo della nostra possibilità di catturarlo. Ma non possiamo rinunciare a contrastarlo e a provare a sospenderlo per istanti ridotti. La memoria e il ricordo attraverso le parole ne sono un esempio. L’amore di una sorella che ricorda un fratello ucciso sorpassa per un attimo la morte. Ma è in quell’attimo che il fratello diventa “presente eterno” e non passato. Abbandonarlo al silenzio è abbandonarlo all’oblio. C’era, un tempo, il dovere del ricordo e nessuno si stupiva che ciò avvenisse. Non era considerata morbosità, ma azione politica, difesa di una biografia. Quando due donne assumono l’idea di invisibilità, morendo nel tanfo senza echi di loro stesse, l’assenza di parola è una condanna al non essere mai state. E la parola deve essere testimonianza, non retorica del fatto. Le istituzioni ce lo hanno insegnato, per una volta. Quando due donne diventano bersaglio dell’ennesimo disegno di egemonia maschile, il problema non è misurare la loro tragedia con altre tragedie, ma denunciare la deviazione culturale di una società che, nonostante i progressi, non si emanciperà mai dall’idea di relazioni squilibrate e binarie (uomo-donna). E questo si fa anche entrando nel vissuto, spiegandolo, usando la parola come bisturi che taglia e esplora.
L’unico timore che dobbiamo avere è la parola giudicante. Perché nel giudizio c’è una sentenza che esclude la possibilità di comprendere. Lo abbiamo osservato anche in questi giorni. Si annidano nella politica e nei salotti bene. La sentenza del fatto, la sentenza della ricostruzione, la sentenza dell’opinione. Da queste parole non uscirà mai una società.
La vita ci mette alla prova tutti i giorni. Mette alla prova la capacità di ricomporla con parole che diano un senso all’insieme. Gli ultimi tre fatti di cronaca nera sopracitati lo testimoniano e avvengono in un periodo di festività per la maggioranza della nostra comunità in cui vorremmo che la resurrezione non fosse solo una potente metafora e simbologia, ma un fenomeno sperimentale per rovesciare la morte e sanare le ferite materiali e psicologiche di chi è in cura.
La coincidenza tra la principale ritualità musulmana (Ramadan, il mese del digiuno) e quella cristiana ci ricorda anche che la parola ha un valore nella sua dimestichezza a rappresentare il plurale. Ad uscire dai concetti di inclusione e esclusione, sapendo che il rispetto o l’attenzione per una minoranza non prevarica certamente i diritti della maggioranza, ma semmai li aiuta a vivere in armonia.