il progetto
mercoledì 11 Giugno, 2025
I detenuti di Trento portano in scena «La balena, sulle tracce di Moby Dick». «Così esploriamo le nostre prigioni, qualsiasi esse siano»
di Ilaria Bionda
Il fondatore della compagnia Finiterrae, Anderle: «Il teatro in carcere è spazio di libertà in un luogo dove la libertà manca»

È cimentandosi in un’avventura tra le onde dell’oceano dell’immaginazione che un gruppo di una ventina di attrici e di attori formatosi all’interno della casa circondariale di Trento ha esplorato i propri desideri più profondi, attraverso la messa in scena – accompagnati da Finisterrae Teatri – de «La balena – sulle tracce di Moby Dick», questa sera (e in replica domani) all’interno del carcere di Spini di Gardolo, solo per un ristretto pubblico di invitati. Spettacolo che è il punto di arrivo di un percorso teatrale nato all’interno del progetto nazionale di Acri, con il sostegno locale di Fondazione Caritro, dal titolo «Per aspera ad astra, come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza», una rete di cui fanno parte sedici compagnie operanti in altrettanti istituti di pena italiani e in cui Finisterrae è entrata nel 2024.
Un ingresso importante, questo, soprattutto per il valore del confronto, come emerge dalle parole della direttrice artistica Camilla Da Vico: «La realtà detentiva non è la stessa dappertutto e trovare strategie comuni, condividere le difficoltà ma anche i risultati, allarga il ventaglio di idee e ispirazioni». Inoltre, far parte del progetto nazionale ha permesso a Finisterrae Teatri di allungare il periodo di lavoro in carcere, passando da periodi di tre mesi all’intera stagione. Come spiega il fondatore della compagnia, Giacomo Anderle: «Questo ci permette di fare sia un lavoro più approfondito, sia una riflessione sul futuro, oltre che di creare una rete di professionisti». Tra loro, Angela Micheli, educatrice e teatroterapeuta che ha incontrato Finisterrae durante il suo percorso di formazione e ha voluto sperimentare il teatro in carcere poiché per lei rappresenta «una possibilità di esprimersi e di dare voce al proprio sé, uno spazio di libertà in un contesto in cui la libertà è momentaneamente e per tanti aspetti compromessa». Significato che si ritrova anche nelle parole di Anderle sull’obiettivo di Finisterrae: «Creiamo degli spazi di immaginazione e libertà perché è importante quando si vive rinchiusi in una cella – reale o meno – che tende a limitare la sensorialità. Il teatro non può cambiare la vita delle persone, ma può permettere loro di immaginarla in modo diverso, migliore, e capire che c’è una possibilità di speranza, anche e soprattutto in un luogo in cui questa prospettiva è spesso sopita, come in carcere. Poter immaginare aiuta a recuperare la propria identità, a capire che non si è solo il reato che si è compiuto ma c’è dell’altro, potenzialità da esprimere e relazioni da sperimentare, che ci permettono di vivere in maniera più completa».
Ed è ciò che effettivamente accade, come spiega Micheli: «All’interno del gruppo, di cui per me è un privilegio fare parte, ci riconosciamo vicendevolmente in un’umanità che ci riguarda tutti e ci abita. Mi viene trasmessa la consapevolezza dell’importanza di affrontare le proprie prigioni, qualsiasi esse siano. Alcuni detenuti mi hanno detto che il teatro permette loro di riscoprirsi umani e di poter tornare ad esserlo davvero, che in quello spazio-tempo extraquotidiano si riesce a volte a dimenticare di essere in carcere. Ciò mostra come il teatro possa essere fonte di stimoli benefici e trasformativi». Lo scopo del progetto è proprio individuabile in una riconfigurazione del carcere, attraverso cultura e bellezza, un concetto definito «Molto alto» da Da Vico, «perché la bellezza ha sicuramente un significato anche spirituale che, più umilmente, per noi è un orientamento che aiuta a trasformare le istituzioni e le persone, sia dentro sia fuori dal carcere». Questa è l’ottica di tutto il lavoro di Finisterrae Teatri che, nei suoi trentadue anni di vita, «si è sempre caratterizzata per una vocazione particolare per i territori di confine, sia anagrafici – come la primissima infanzia – sia sociali – come il disagio psichico», spiega Da Vico. «Come il nome stesso suggerisce, ci dedichiamo a luoghi in cui qualcosa finisce. Ma, in realtà, dove la terra finisce, inizia il mare, vi sono quindi luoghi ricchi di possibilità da esplorare». Per Anderle si tratta anche di luoghi in cui: «Si fanno incontri particolari quanto straordinari. Tra i nostri obiettivi vi è infatti quello dell’incontro tra persone, in modo che possano così riappropriarsi di sé stesse e della propria storia, del proprio essere». Valore chiave, questo, della teatroterapia che, come spiega Micheli: «Utilizza le tecniche teatrali per elaborare i propri vissuti interiori, scegliendo nuove consapevolezze e mettendo in atto un autentico incontro con l’altro». L’ottica del progetto è anche quella di apertura verso la città: «Per riallacciare dei nodi di convivenza e con la speranza, in futuro, di rendere il teatro in carcere accessibile a tutti». Speranza basata anche sulla «fertile» esperienza in casa circondariale a Trento, così definita da Da Vico grazie alla grande collaborazione: «Quando si lavora in un posto come il carcere, in cui ogni sbarra è di fatto un finisterrae, è possibile costruire qualcosa solo insieme». Ciò che si è costruito, in questo caso, è stata la rappresentazione di Moby Dick. Perché questa scelta? «Perché è un capolavoro e noi meritiamo capolavori», risponde Da Vico.
Le fa eco Anderle: «Oltre ad essere un’opera immensa, è la storia di una nave che è una comunità composta da marinai provenienti da posti diversi, ognuno con le proprie aspettative e i propri desideri. È quindi un parallelismo con il carcere, dove ci sono persone di nazionalità diverse con esperienze e desideri diversi». La scelta è stata quindi anche un’occasione sia di riflessione — «sui desideri di ognuno, su come questi possano portarci in alto, oppure verso il fallimento, e su come la capacità di accettare questo fallimento possa condurci alla salvezza» spiega Anderle — sia di scoperta di sé stessi, perché «quando si riesce a ritrovare dentro lo spettacolo la propria storia, scatta qualcosa di importante, perché se questa narrazione apparentemente così difficile e un po’ astrusa, sta parlando proprio a me in quel momento, si capisce così anche il senso di fare teatro».
Lo spettacolo di quest’anno sarà visibile solo da un gruppo ristretto di invitati, ma per poter raccontare quanto sta avvenendo all’interno della Casa circondariale sono stati attivati due progetti paralleli: un podcast in tre puntate che sarà disponibile su spotify e sul sito ftteatri.it e un documentario curato da Harpolab.
Per realizzare il progetto teatrale «La balena – sulle tracce di Moby Dick», Finisterrae ha avuto la possibilità di raccogliere attorno a sé un nutrito gruppo di lavoro formato da professionisti operanti in vari ambiti dello spettacolo dal vivo (teatro, danza, drammaturgia, scenografia, regia, …) e uno staff organizzativo così composto: Silvia Dezulian, Filippo Porro, Marta Marchi, Alessio Kogoj, Gabriele Zanon, Nadezhda Simeonova, Michela Cannoletta, Angela Micheli, Raffaella Fracalossi, Chiara Ioriatti, Silvia Benigni.