Terra Madre
giovedì 18 Dicembre, 2025
Ghiaccio sempre più sottile, gli esperti al Muse: «L’Antartide minaccia il resto del mondo. Il Polo Sud deve diventare un bene comune»
di Marco Ranocchiari
Il punto anche sulla missione dello scorso settembre in Groenlandia
«Quel che succede nell’Artico non resta nell’Artico», amano dire i ricercatori, parafrasando ironicamente l’adagio «Quello che accade a Las Vegas rimane a Las Vegas». E allo stesso modo, quello che accade all’angolo opposto della Terra, l’Antartide, ha conseguenze in tutto il mondo.
È con questa consapevolezza che si è chiuso il ciclo «Dialoghi sul ghiaccio», realizzato al Muse nell’arco del 2025, proclamato dalle Nazioni Unite Anno internazionale dei ghiacciai. Nell’incontro sono intervenute Giulia Foscari – architetta, curatrice e attivista – ideatrice di diversi progetti per salvaguardare l’Antartide, e Matilde Peterlini del Muse, che ha raccontato la spedizione scientifica organizzata dal Museo delle scienze nel settembre di quest’anno.
Antartide «bene comune»
«Una delle cose che colpisce è il suono: anche con il cielo sereno si sentono come dei tuoni. È il ghiaccio che si frattura continuamente». Questo deserto remoto e inaccessibile, spiega Foscari, è tutt’altro che scollegato dalle sorti dell’umanità. Non solo perché rappresenta uno degli archivi scientifici più importanti del pianeta, dove «i glaciologi raccolgono bollicine d’aria intrappolate nel ghiaccio da oltre un milione di anni», e racchiude il 70% dell’acqua dolce terrestre. Ma anche perché è «un territorio conteso, caratterizzato da un enorme interesse geopolitico».
Finora il continente è stato protetto dal Trattato antartico del 1959, mentre lo sfruttamento delle risorse minerarie è stato vietato nel 1998, con un accordo che scadrà nel 2048. «Oggi le potenze sono molto interessate all’Antartide – spiega Foscari – anche perché con le nuove tecnologie estrarre minerali da luoghi così proibitivi non è più impensabile».
A queste pressioni si sommano quelle, più note, del riscaldamento globale e dell’assottigliamento delle calotte. Di fronte a queste minacce, Foscari lavora per la tutela del continente andando oltre la sola questione ambientale, guardandolo attraverso la lente dei «Commons», i beni comuni. Il continente bianco è una delle principali attenzioni della Fondazione Unless, da lei fondata, che promuove progetti culturali legati ai Beni Comuni dell’Umanità. Con Voice of Commons, sostenuto anche da Esa, Unesco e Nazioni Unite, il lavoro si è esteso a oceano, atmosfera e spazio, portando alla creazione di una «piccola ambasciata planetaria» alla Biennale di Venezia. È stata inoltre presentata la Dichiarazione dei diritti dell’Antartide. Da architetta, Foscari ha spiegato come anche le 76 basi (e una quarantina dismesse e in diverso stato di conservazione) rappresentino un patrimonio storico da salvaguardare, proponendo la creazione di una base scientifica internazionale. «L’Antartide è al tempo stesso la più grande minaccia e il più grande archivio della Terra: lo scioglimento dei suoi ghiacci innalzerebbe i mari di 60 metri – ha spiegato – e cancellerebbe dati indispensabili per orientare politiche ambientali non più rinviabili. È tempo di dare voce all’Antartide e di preoccuparci del suo futuro».
Il Muse in Groenlandia
Nel settembre 2025 un team di ricerca del Muse si è spinto fino alla Groenlandia orientale, in una spedizione tra i fiordi che circondano l’abitato di Tasiilaq (con 1900 abitanti il principale della costa est dell’isola) per gettare le basi di un progetto «bio-culturale» a cavallo tra archeologia, storia ambientale e scienze naturali.
«Abbiamo colto la richiesta di una fondazione, la The Red House Greenland Foundation, fondata dall’altoatesino Robert Peroni, che vive lì da 40 anni e supporta la comunità locale», spiega la ricercatrice del Muse Matilde Peterlini. «La missione è stata prima di tutto un’occasione di incontro con la comunità indigena, dotata di una spiccata conoscenza ambientale».
La Groenlandia orientale, spiega, «ha subìto una politica di assimilazione culturale durante il passato coloniale danese e affronta sfide persistenti legate a questi temi», tanto che «ancora oggi la maggior parte delle cariche sono ricoperte da europei». Anche la scienza non è immune: «circa l’87% delle ricerche non coinvolge adeguatamente le comunità locali». Un aspetto chiave della missione è stato quindi incontrare le comunità locali, utilizzando vecchi report scientifici (archeologici, antropologici, naturalistici) risalenti all’inizio del ’900 per confrontare descrizioni e foto d’epoca con le conoscenze attuali. La comunità – prosegue – si è mostrata molto interessata alle specie animali e vegetali, legate ad attività che ancora svolgono. «Sono molto esperti anche nell’uso di diverse specie di piante e animali, in particolare dal punto di vista culinario». Il viaggio – propedeutico alla costruzione di un progetto – ha permesso al team trentino non solo di riflettere «sugli impatti che il riscaldamento globale determina sulla biodiversità e sulle popolazioni umane e sul ruolo che la ricerca può avere in questo contesto delicato», ma anche di imparare moltissimo.
Per gruppi così immersi nella possente natura che li circonda, ha spiegato, bisogna però imparare a porre le domande giuste: «Alla domanda se percepiscono il cambiamento climatico spesso non sanno rispondere. Ma se chiediamo se c’è un cambiamento che influisce sulle loro attività, allora cambia tutto: il ghiaccio marino diventa sempre più sottile, impedendo la caccia, e le specie ittiche stanno cambiando».