La storia

martedì 23 Aprile, 2024

Federico Samaden: «Da giovane mi drogai per ribellarmi. Muccioli è stato un secondo padre che mi ha salvato»

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Il dirigente dell'istituto Alberghiero di Levico prossimo alla pensione si racconta: «Oggi la scuola fa fatica a trovare il passo con la società»

All’Alberghiero di Levico Terme, che dirige da 15 anni, sta pensando a progetti di sviluppo futuro. Eppure, a fine settembre andrà in pensione. Alla Fondazione Demarchi, che presiede da alcuni anni, è un vulcano di idee, sebbene il suo attuale mandato finisca alla fine di quest’anno. Federico Samaden tra pochi mesi è pronto ad aprire una nuova fase della sua vita, «la mia quinta vita», dice con una punta di giusto orgoglio. Classe 1957, milanese, ha vissuto in prima persona il dramma della tossicodipendenza negli anni Settanta, ne è uscito, è diventato un faro, in Trentino, per la lotta alla droga e il recupero umano e sociale di chi cade in quella trappola. Dirigente della formazione professionale alberghiera, presidente della Fondazione Demarchi che si occupa di formazione, welfare e sociale.

Dirigente Samaden, gli studi universitari, però, sono in economia… 
«Sono stato bocconiano e mi sono laureato a Siena in Scienze economiche e bancarie, è vero. A Siena, perché lì c’era quell’indirizzo».

Famiglia milanese borghese?
«Sono nato in una famiglia borghese di Milano. Papà era primario di radiologia; io secondogenito di cinque figli. In quegli anni si andava “contro” il sistema. E la protesta avveniva attraverso l’attivismo politico o drogandosi».

Lei cadde nella spirale della droga. Come?
«Allora era molto facile. Dai 15 ai 28 anni sono stato un “tossico”. In un attimo ti ritrovavi in quel buio: c’era fermento, in quegli anni: una grande energia, ma anche tanto disorientamento. C’era la rivoluzione da fare, drogandoti ti sentivi “più figo”: ti “facevi” e ti costruivi il personaggio. Era una scelta comoda: finivi di pensare. L’unico obiettivo diventava avere i soldi per la “roba” da consumare con gli amici e ricominciare. Un circuito da 24 ore su 24, che diventava la tua tana. Il tossico non ha paura di morire, ma di vivere: fugge la vita continuando con l’eccitazione dei neuroni, in un ciclo diabolico soldi-roba».

Dunque: la prima vita quella da figlio adolescente di famiglia borghese, poi tredici anni di droga, ed ecco la terza vita.
«San Patrignano, Vincenzo Muccioli. La mia famiglia mi portò da lui tirandomi per le orecchie, più morto che vivo. Muccioli per me fu un secondo padre. Mi ha regalato uno sguardo nuovo sull’uomo, trasmesso da un laico. La mia seconda data di nascita è quella in cui entrai a SanPa. Nel 1989 arrivai a Pergine. San Vito di Pergine, con la comunità di San Patrignano, mi permise di capire le persone con dipendenza dalle droghe per convincerle a vivere: lavoro e amore. Relazioni più bici, falegnameria, frutti di bosco, allevamento dei cani sociali, che erano solo uno strumento».

Come mai proprio San Vito di Pergine?
«C’era una ex colonia per i figli degli operai Michelin. Serviva una colonia per le vacanze dei bimbi di chi stava a San Patrignano, in montagna. Lo dicevo a Muccioli: “Ci manca un posto in montagna”. Io ero in uscita da San Patrignano: era giugno, finivo a settembre. Guardando quella struttura, che necessitava di interventi, mi venne l’idea: facciamo qui una comunità. Muccioli mi disse: “Preparati a tante fregature, ma non smettere mai di credere”. Il 4 ottobre del 1989 ero lì con il primo ragazzo, Giorgino. Poi il secondo: Walterone. A Natale eravamo in dodici. Sono stati i vent’anni più meravigliosamente pazzeschi della mia vita».

E siamo alla quarta vita: quella di dirigente dell’Alberghiero di Levico. Tra meno di sei mesi sarà in pensione.
«Una fase della mia vita durata 15 anni. A SanPa avevo imparato a capire gli adulti: adesso toccava ai ragazzi e alle ragazze, gli adolescenti. Apparentemente tutto un altro mondo. In realtà semplice ma impegnativo allo stesso modo».

La quinta vita comincia tra poco: pronto?
«Devo dire che la cosa mi emoziona e mi stimola: sono eccitato come un bambino. Una tela bianca tutta da dipingere. La complessità, le criticità non mi spaventano e poi ho fiducia nel futuro, il Signore mi ha sempre dato gli strumenti per fare il bene».

Dalle prime quattro vite cos’ha imparato?
«Che viviamo in un’epoca in cui servono alleanze pubblico-privato, non formali. E competenze. Continuare a imparare, formare: è importantissimo. Dobbiamo dare da mangiare al cuore, e per questo i generatori di vita sono la natura, l’arte, le relazioni umane, a partire da quelle in cui ci si prende cura della vita».

Da milanese in Trentino da 35 anni, ovvero oltre metà della sua vita, un pregio e un difetto dei trentini?
«Comincio con i pregi, che sono a mio avviso molti di più dei difetti: essenzialità, concretezza, saper rivestire con discrezione ogni ruolo. I difetti? Forse una carenza di coraggio nell’innovazione. Non dico che non ci sia anche in Trentino una attenzione ai processi innovativi, ma a volte sono interpretati più come una aggiunta di pezzetti nuovi a una visione vecchia, mentre io sono attratto dai “cambi di paradigma”, dalle visioni assolutamente destrutturanti. Ma certamente la solidità del Trentino ha una sua velocità coerente, e quindi è solo un problema mio l’eccesso di dinamismo che chiedo a me stesso».

Da attento osservatore della società italiana, in generale, qual è il nostro stato di salute sociale?
«Non buono. In troppi ci dimentichiamo di vivere. C’è una progressiva disaffezione alla vita da parte di troppi individui. Il tasso di “non vita” è preoccupante. Aumentano le paure; con le nostre imperfezioni e soli con le nostre paure ci rinchiudiamo in noi stessi. Patologie depressive e uso di sostanze sono in aumento. Dobbiamo riscoprire il valore delle relazioni, assumerci la responsabilità di aiutare gli altri a sentirsi meno soli».

In questi ultimi 15 anni nel mondo della scuola, si sente cambiato?
«Sono diverso dal primo giorno. Mi sono accorto che, di fronte a una società che galoppa, la scuola fa fatica a reggere il passo. Dalla governance che fa riferimento ai decreti delegati del 1974, alla didattica che non è più attrattiva chiusa nelle mura di una classe, dal rapporto con le regole al nuovo ruolo del docente, tutto il terreno su cui la scuola si poggia è sempre più fragile e va rigenerato e rinforzato».

Giusto che la politica (alludiamo all’assessora trentina Gerosa) indichi quando dare o non dare i compiti a casa per le vacanze?
«Il rapporto tra decisori politici e aspetti pedagogici è spesso un terreno molto delicato e pieno di insidie. Diciamo che il tema dei compiti a casa può avere spazio solo all’interno di un più ampio ragionamento sugli apprendimenti, su come funzionano oggi i neuroni dei ragazzi che studiano, e sul tempo scuola che spesso è poco efficace. Certamente vedere che un assessore dimostra attenzione e sensibilità al mondo scuola è un segnale che lascia sperare in un nuovo corso, magari costruito attraverso un grande processo di partecipazione della componente studentesca alla definizione dei nuovi. Sì a co-costruire percorsi, sburocratizzare processi».

Il caso della scuola di Pioltello, che ha deciso lo stop alle lezioni nel giorno di fine Ramadan?
«Le polemiche nate dimostrano l’incapacità dell’Italia di essere pragmatica, e non ideologica, su queste cose: nel concreto, ci sono scuole che hanno una componente straniera maggioritaria nelle classi, a fronte di un calo demografico italiano ormai evidente. Questo è un fatto reale con cui fare i conti, senza pregiudizi. Non mi schiero, ma dico che l’autonomia scolastica va difesa».

Il settore della ristorazione ha esaurito il suo boom attrattivo?
«Gli chef in tv hanno avuto effetto in passato. Oggi è cambiato l’approccio dei ragazzi al lavoro, che non è più centrale. C’è un rapporto diverso con lo stress: non si possono più pensare quelle cucine stile caserme in cui gli chef urlano ai colleghi più giovani. Serve più etica. I giovani scelgono la strada in cui si fa meno fatica e c’è più tempo libero. Ed è cambiata anche l’etica del consumatore. I ristoranti stellati sono in crisi: 250 euro per un pasto, per molti, con la crescita delle diseguaglianze, non sono etici».

Come vede, infine, il futuro della Fondazione Franco Demarchi che guida dal 2021?
«I tre soci sono la Provincia, il Comune, la Cooperazione. Sto lavorando, in sinergia con il cda, il direttore e tutti i dipendenti, a una maggiore interazione tra questi tre soggetti. Il presente è impegnativo, e il futuro lo sarà anche di più e per questo è necessaria la massima partecipazione e coinvolgimento di tutti e tre i soci fondatori intorno alla Demarchi. Mi sono impegnato per aumentare la reputazione e la conoscenza della Fondazione. In passato è stata “usata” dall’ente pubblico soprattutto come “terzista”: ora abbiamo idee nostre, per affrontare emergenze come la povertà educativa, le dipendenze, il nuovo welfare. La Fondazione Mach guarda al futuro dell’ambiente e dell’agricoltura, la Fondazione Kessler a quello della tecnologia, noi siamo una nave che è salpata nel mare delle criticità del welfare e del sociale».