L'intervista

mercoledì 30 Aprile, 2025

Federica Mingolla e il «battesimo» sulla Marmolada: «La parete sud è unica. ll K2? Non mi pento della rinuncia»

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La climber piemontese: «La regina delle Dolomiti offre un chilometro di arrampicata pura. In montagna ho perso molti amici»

La parete sud – «d’argento» – della Marmolada, è sicuramente una delle più agognate delle Dolomiti, tanto da richiamare pretendenti da più di un secolo. Sono difatti tanti i nomi dell’arrampicata italiana e non solo che nel corso del tempo hanno desiderato scrivere la propria pagina di storia alpinistica salendo una delle grandi vie della «Regina». Di questo, ascoltando i racconti in prima persona dalla voce dei protagonisti, si parlerà domani sera alle 21 al teatro Sociale nell’ambito del Trento Film Festival con «Marmolada parete sud: la regina, le grandi vie e i protagonisti». Sul palco, con Alessandro Gogna, Maurizio Giordani, Dante Del Bon, Igor Koller, Manolo, Vitus Auer, Rolando Larcher e Matteo Della Bordella, a spiccare è anche il nome di Federica Mingolla, trentunenne piemontese che all’arrampicata e all’alpinismo affianca il lavoro di guida alpina.

 

Al Trento Film Festival sarà ospite della serata «Marmolada parete sud». Ci sono delle particolari imprese che la legano a questa parete?
«Una delle prime vie veramente lunghe che ho scalato è stata la “Via attraverso il pesce”, proprio sulla Marmolada, che è stata quindi una sorta di battesimo, anche perché a nord-ovest non abbiamo pareti così verticali, di quasi un chilometro di arrampicata pura».

 

La Marmolada ha richiamato a sé pretendenti sin dai primi anni del ‘900, com’è diverso l’approccio adesso rispetto ad allora?
«Sicuramente le tecnologie hanno migliorato le attrezzature, che oggi sono molto più moderne e versatili rispetto ai chiodi di un tempo. Ma, soprattutto, ad essere cambiato è il modo di allenarsi. Un tempo non esisteva l’allenamento specifico per l’arrampicata, le persone andavano in montagna e forgiavano la propria tecnica scalando le pareti con l’ottica di arrivare in cima, non importava come. Penso che la “Via attraverso il pesce” sia stata un po’ il simbolo, invece, di una scalata un po’ più rivoluzionaria e pensata».

 

Oltre all’approccio fisico, vi erano quindi anche differenze dal punto di vista mentale.
«Sicuramente un tempo avevano molto coraggio. E quel qualcosa che vivo anche io un po’ nella mia esperienza, ossia il dubbio di non riuscire. Ciò mette ancora più adrenalina addosso e ti porta a dare molto di più di quello che avresti in potenziale. Quando sei sicuro di riuscire, invece, dai tutto per scontato, sei “pigro”, non dai il tuo massimo».

 

Lei è anche guida alpina. Cosa cambia della dimensione alpinistica in questo lavoro, rispetto alle ascese in solitaria o in cordata?
«Nel lavoro di guida alpina viene sicuramente meno il concetto “egoistico” di voler fare qualcosa per sé: trovo che sia un gesto di grande altruismo perché non accompagni solamente la persona in cima a una montagna, che a volte non è nemmeno l’obiettivo, ma devi far vivere un’esperienza, trasmettere la tua passione. Personalmente, quando accompagno qualcuno, provo a fare in modo che viva le stesse cose che vivo io, a far vedere la montagna attraverso i miei occhi».

 

Negli eventi sul mondo della montagna a vario titolo spicca sempre una maggioranza di nomi maschili. Crede che ci siano poche donne che praticano queste discipline, o che semplicemente non siano famose?
«Sicuramente c’è un numero inferiore di donne che vanno in montagna con un’esperienza proporzionale a quella degli uomini. Se mi dovessero chiedere dei nomi di donne che in Italia sono conosciute nel panorama alpinistico farei fatica a trovarne più di quattro o cinque, mentre con nomi di uomini potrei tranquillamente arrivare a venti. Quindi sì, statisticamente il numero di donne alpiniste è inferiore e di conseguenza anche di quelle famose. I motivi sono abbastanza evidenti, sono fisiologici e spesso comportano delle scelte».

 

Lei ha fatto parte della spedizione al femminile organizzata nel 2024 per celebrare i 70 anni dalla prima salita italiana al K2, salvo poi rinunciare all’ascesa per problemi di salute. Cosa ci può dire, a questo proposito, del valore della rinuncia, in un mondo come quello alpinistico dove si parla quasi solo delle conquiste?
«Credo di aver iniziato ad andare in montagna senza prendere in considerazione l’idea di poter abbandonare la salita. Era un’ottica senz’altro giovanile, un po’ “guerriera”, perché non avevo ancora vissuto sulla mia pelle quelle esperienze che fanno rendere conto dei rischi che si corrono, non avevo idea delle conseguenze che derivano da ogni decisione che si prende quando si scala. Negli anni, poi, ho fatto esperienze, perso amici… e tutte queste cose portano a fare delle riflessioni, ad affrontare ciò che si fa con maggiore consapevolezza, a rendersi conto di quali sono i limiti e fino a dove si è disposti a rischiare. Si cresce, si invecchia e si matura, o meglio, io sono una persona predisposta a farlo, ad imparare dall’esperienza e sono contenta di essere un po’ “fifona” (ride, ndr). Così, sul K2 mi sono svegliata la mattina al campo tre senza forze, non me la sentivo neanche di scendere, figurarsi di salire, e ho preso la decisione di tornare indietro e rinunciare e so che è stata la scelta giusta».