venerdì 25 Luglio, 2025

Emanuela Evangelista: «Se l’Amazzonia collassa, la specie umana si estingue. Non c’è più molto tempo»

di

La biologa e attivista presenta anche a Trento il documentario Missione Amazzonia: «Foresta in stato precario a causa di deforestazione e riscaldamento globale»

«L’Amazzonia è in pericolo: siamo noi a doverla salvare». Con questo grido d’allarme Emanuela Evangelista – biologa della conservazione ed attivista ambientale – ha lanciato un appello forte e chiaro per l’uscita del documentario Missione Amazzonia presentato anche a Trento. Il reportage segue il viaggio d’osservazione e di studio sugli effetti del cambiamento climatico, condotto nel 2024 durante la più grave siccità che l’Amazzonia abbia mai registrato, ideato ed organizzato da Amazônia ETS, organizzazione di cui è presidente, in collaborazione con 3Bmeteo. Emanuela Evangelista è impegnata da più di vent’anni nella tutela della biodiversità e delle popolazioni tradizionali della più vasta foresta tropicale del pianeta. Dal 2013 vive nel villaggio di Xixuaú, nel cuore della foresta amazzonica, insieme a una piccola comunità di famiglie che abitano in palafitte circondate dalla foresta primaria incontaminata. È ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, vincitrice della seconda edizione di Campiello Natura e membro della Species Survival Commission della IUCN. Il suo lavoro e i risultati delle sue ricerche hanno contribuito alla creazione del Parco Nazionale dello Jauaperi, salvaguardando 600.000 ettari di foresta intatta, pari alla Provincia di Trento.

 

Partiamo dal principio: da biologa com’è nato il suo interesse per l’Amazzonia?

«Il primo contatto con l’Amazzonia l’ho avuto venticinque anni fa. All’epoca stavo svolgendo una ricerca sulla lontra gigante, specie presente nel bacino amazzonico a rischio d’estinzione a causa della caccia per la pelliccia e della distruzione del proprio habitat. Così, ho conosciuto l’Amazzonia con un approccio esclusivamente scientifico. Poi, nel corso degli anni, ho ampliato il mio orizzonte, sviluppando una visione olistica della conservazione, comprendendo che la conservazione, per essere efficace, aveva bisogno di diventare conservazione socio-ambientale, non occupandosi esclusivamente dell’ambiente, ma anche delle popolazioni locali. Così, la mia anima da biologa ha ampliato la sua visione unendosi a quella d’attivista, coniugando gli aspetti scientifici a quelli umani».

 

Quando ha compreso che la foresta non sarebbe stata solo il suo oggetto di studio e di lotta, ma anche la sua casa?

«Questa è stata una conseguenza del lavoro di tanti anni, fatto di un progressivo ma inesorabile innamoramento per l’Amazzonia. Inizialmente il mio sogno era l’Africa, non la foresta tropicale, appena vista però, ho capito che quella combinazione d’acqua e clorofilla si confaceva alla mia persona. L’Amazzonia ha una compartecipazione armonica introvabile nel resto del mondo: è un’unione di bellezza e di silenzio naturale i cui suoni producono una melodia unica, lontana dai frastuoni metallici della società civile. Così, dopo tredici anni da pendolare tra il Brasile e l’Italia, con la crescita del lavoro, ho sentito necessario spostarmi per appartenere ad un mondo che sentivo sempre più mio. Qui, la popolazione nativa mi ha subito ben accolta: all’inizio, com’è normale, mi guardavano con un po’ di curiosità, ma tornandoci negli anni abbiamo creato un forte legame di fiducia che li rende oggi la mia famiglia. Nella foresta ho trovato il rapporto non mediato con la natura: rapporto che terrorizza, affascina e chiama a sé. Così ho avviato il mio processo d’indigenizzazione, sentendomi sempre più parte di quell’ambiente, sentendo nella flora e fauna che mi circondava una parte di me».

 

Cos’è che l’ha più colpita delle popolazioni native che vivono in completa dipendenza dalla natura e dai suoi ritmi?

«Il loro modo di vivere: bellissimo, puro e completamente diverso dal nostro. In Amazzonia bisogna imparare a convivere con tutto ciò che ti circonda. Lì non releghi la natura all’esterno dei centri abitati, ma anzi è essa stessa che li permea, li costituisce e li trasforma: l’uomo non è l’essere, ma un essere tra gli esseri che convive alla pari con la Foresta. Questa è una delle cose più difficili da comprendere e più stimolanti che ho trovato. Il loro vivere in una socialità originaria ha consentito di mantenere la foresta intatta, ma non integra. La foresta è stata attivamente modificata dalle popolazioni indigene che si sono insediate in Amazzonia tra i 12.500 ed i 20.000 anni fa con la creazione di aree d’occupazione per le loro società, tuttavia queste sono riuscite a non trasformarla in un bioma senza foresta, come invece abbiamo fatto noi. Per questo il loro modo di vivere dev’essere assunto a modello: essi non vedono la natura come un ostacolo da sopraffare, ma come un compagno con cui percorrere il proprio cammino. Questo modello etico d’occupazione del pianeta può essere di grande aiuto».

 

Lei nel 2004 ha fondato l’associazione Amazônia ETS, di cosa si occupa?

«Due sono i principali compiti che abbiamo perseguito in questi vent’anni. Anzitutto la protezione e la salvaguardia della foresta ancora intatta nelle zone dell’Amazzonia profonda. In secondo luogo il restauro della foresta nelle regioni colpite dalla deforestazione tramite lavori di riforestazione. Nel corso degli anni, i nostri sforzi hanno portato alla creazione del Parco Nazionale dello Jauaperi: riserva estrattivista costruita sulla proprietà collettiva in cui le popolazioni locali hanno il diritto di rimanere a vivere, di mantenere il proprio stile di vita e la propria cultura. Questo è fondamentale perché dove c’è la proprietà collettiva non si verificano fenomeni di deforestazione in quanto si determina un autocontrollo collettivo per cui nessuno fa qualcosa che potrebbe danneggiare sé stesso e gli altri. Degno di nota anche l’apporto che ha avuto la Provincia di Trento, finanziando in Amazzonia uno dei progetti più importanti della nostra associazione: la protezione alla foresta intatta si può fare solo se si combatte anzitutto la povertà creando opportunità di reddito, e ciò è quello che ha fatto la Provincia di Trento. Nel 2008 la Provincia ci aiutò ad avviare una cooperativa per l’eco-turismo comunitario, dando alle popolazioni locali l’opportunità di auto-sostenersi e di avviare progetti di conservazione ambientale. Abbiamo anche condotto importanti ricerche scientifiche insieme al Muse con il monitoraggio della fauna attraverso foto-trappole».

 

Ha evidenziato le enormi difficoltà che vive l’Amazzonia. Qual è lo stato di salute della foresta pluviale?

«È uno stato precario. La deforestazione si accumula: il tasso annuale di deforestazione varia, in Brasile siamo passati da 20.000 chilometri quadrati deforestati al 2024 con 4.000, ma bisogna comprendere che questi numeri vanno tutti a sommarsi nella deforestazione cumulativa che, dagli anni ‘70 ad oggi, ha portato ad una riduzione della Foresta Amazzonica pari al 18%. Questo è un dato allarmante, soprattutto considerato insieme ai modelli predittivi della comunità scientifica secondo cui quando si raggiungerà il 20% di foresta pluviale andata perduta, scatterà il punto di non ritorno con un processo irreversibile che causerà la trasformazione dell’ecosistema dalla foresta pluviale, tropicale ed umida ad una foresta arida, povera di biodiversità e simile ad una savana. Non abbiamo molto tempo. Ci restano 15 anni, 30 al massimo per invertire questo trend. Questa progressiva morte della foresta è già visibile nelle regioni dell’Amazzonia fortemente antropizzate dove gli alberi madre, incaricati della sopravvivenza della biodiversità, muoiono. La progressiva morte dell’ecosistema sta già portando alla sua sostituzione con la savana. La lotta per la salvezza dell’Amazzonia è una delle sfide più importanti del nostro secolo: se l’Amazzonia dovesse collassare, ci aspettiamo l’emissione in atmosfera di una quantità così grande di CO2 che equivarrebbe a otto anni d’emissione attuali. Questo comporterebbe la sconfitta nella lotta al cambiamento climatico e la scomparsa della specie umana: l’homo sapiens ha bisogno d’una certa temperatura per sopravvivere su questo Pianeta, le condizioni che s’andrebbero a creare con la perdita del polmone verde della Terra, porterebbero a situazioni in cui sarebbe impossibile evitare la nostra estinzione».

 

Quali sono le principali cause di questo stato?

«C’è una combinazione letale tra aumento delle temperature e deforestazione. Questi due fattori, accelerando la morte degli alberi, diffondono l’aridità nella foresta. È proprio a causa dell’aumento delle temperature che s’è andata a creare la grande siccità che abbiamo documentato in Missione Amazzonia. Per quanto riguarda, invece, la deforestazione, essa parte con l’estrazione selettiva del legname pregiato, attività illegale spesso destinata ai mercati europei. Il secondo passaggio è la completa distruzione della flora rimanente, ottenendo una terra adatta al pascolo, all’estrazione dell’oro ed alla monocultura della soia destinata agli allevamenti intensivi dei nostri paesi»