La tragedia
domenica 21 Dicembre, 2025
Disastro del Monte Giner, i racconti dei soccorritori: «Faceva così freddo che non era possibile mangiare, sul luogo dello schianto non c’erano corpi interi»
di Roberto Rinaldi
Le testimonianze di chi, il 25 dicembre di 69 anni fa, sfidò il gelo per recuperare le ventuno salme: «Una scena terrificante»
I giornali dell’epoca, con gli inviati giunti da tutta Italia, testimoniarono l’eccezionale partecipazione di chi con mezzi di fortuna, scarsi equipaggiamenti, le condizioni meteo avverse, non esitò a percorrere di notte le vie del soccorso, sfidando una natura impervia, con il compito di restituire ai loro cari chi aveva perso la vita, mentre tornava a casa per trascorrere il Natale in famiglia. Fu un gesto di eccezionale solidarietà che non poteva essere dimenticato, al fine di onorare la memoria di coloro che quel maledetto giorno si erano imbarcati sul volo 416. Gli uomini del Soccorso Alpino infortunati per congelamento furono ricoverati a Cles e al Centro Inail di Trento. Ugo Dell’Eva, 29 anni di Ossana, Guido Bertagnolli, 48 anni di Malè, Timoteo Zambotti, 36 anni, Giuseppe Turri, 24 anni e i carabinieri Benito Torricelli di 24 anni, Giovanni Valentini e Angelo Lancella.
Enzo Taddei faceva parte della stazione del Soccorso Alpino di Malè. A 18 anni era diventato istruttore dopo aver superato il corso che aveva svolto a Peio, al Rifugio Vaiolet e sul ghiacciaio della Marmolada. «Fin da ragazzo sono sempre andato in montagna. A 14 anni ho arrampicato sul Campanile Basso. Durante il servizio militare dalle casermette della Guardia di Finanza di Brennero, per 22 giorni attraversammo le montagne, superando Resia e il Passo del Tonale fino ad arrivare a Malè. A 80 anni ho anche fatto la ferrata delle aquile. Posso dire che la mia vita l’ho vissuta sulle cime. Il 25 dicembre ci hanno chiamati per andare a recuperare le vittime. Siamo partiti da Ossana alle 5.30 della mattina in 50 ma solo pochi di noi ce l’hanno fatta, mentre gli altri, a causa del freddo, sono dovuti tornare indietro. Abbiamo impiegato quattro ore per arrivare sul luogo del disastro, cercando di fare in fretta nel recuperare i resti per depositarli nei canotti Akia e nei sacchi. Non c’erano corpi interi ma solo parti congelate. La fatica più grande l’abbiamo provata quando siamo scesi perché c’era poca neve e si faceva fatica a far scivolare le barelle. Il capitano Colombatti faceva la spola per portare ai soccorritori il cordiale dei militari. Non era possibile mangiare nulla, la cioccolata si era congelata. Per proteggerci dal freddo avevamo indossato più strati di maglie di lana ricoperte di grasso di maiale. Io ho trasportato a valle un sacco pieno di resti umani. Ho subito il congelamento delle mani perché i miei guanti sono rimasti incollati alle lamiere, disintegrati dal freddo. Il farmacista mi ha fatto immergere le mani per due ore in una soluzione che aveva preparato. Non riuscivo più a tenere tra le dita le posate per mangiare. Non si sono più raddrizzate come prima». Enzo Taddei è ritornato nuovamente sul Monte Giner nel mese di luglio del 1957: «I figli dei coniugi Grey (il manager della Coca Cola americana e sua moglie, ndr) vennero a Malè per chiedermi se li accompagnavo sul luogo dove erano deceduti i loro genitori. Con loro c’erano altri due ragazzi (i figli di Luciano Renieri che lavorava come chimico per la Coca Cola in Italia, ndr). Quando arrivammo sul posto si sentiva ancora l’odore sgradevole di piccoli resti umani in putrefazione emersi dalla la neve che si era sciolta».
Tra i soccorritori anche Giovanni Dell’Eva: «Non domandatemi nulla. Ne ho visti tanti di morti e di disgrazie nella mia vita, ma non ero preparato a una sciagura di questa entità. Non costringetemi a dirvi quello che non ho visto, che non ho voluto vedere». Giuseppe Turri, invece, faceva parte della squadra di Pronto Soccorso Alpino di Pinzolo in Val Rendena. «Fu terrificante la scena che si presentò ai nostri occhi quando avvistammo il relitto dell’aereo. Non potrò mai dimenticare lo sguardo atterrito e disperato dell’hostess Maria Luisa Onorati che stringeva una mano tra i denti».
«A guidare le operazioni – spiega Fabio Albasini – fu il capitano dei carabinieri Colombatti, della compagnia di Trento. Aveva deciso che io e una guida alpina di Trento, che conosceva bene il territorio, dovevamo partire alle tre di mattino, raggiungere la zona e sistemare i segnali per fare atterrare un elicottero. Negli zaini portavamo le attrezzature e la legna. Il freddo era terribile e si doveva accendere il fuoco per resistere ai 30 gradi sottozero. La scena che ci siamo trovati davanti era orribile. L’aereo era andato a sbattere contro la montagna, spezzato di due. Parte della carlinga risultava intatta. La coda piantata nella neve. I motori distrutti nell’impatto contro la roccia».
Pierangelo Bezzi è stato per molti anni presidente della sezione della Sat dell’alta Val di Sole. «Nel 1956 – ricorda – avevo 8 anni e quella sera stavo andando a prendere il latte al caseificio in cima al paese di Cusiano. Verso le 18 della sera del 22 dicembre vidi un bagliore che proveniva dalla cima del Giner. C’erano già altri uomini con lo sguardo rivolto al cielo e tutti si chiedevano cosa potesse essere accaduto. Le nuvole basse permettevano di osservare le fiamme dell’incendio. Nei giorni successivi vidi anche le salme, trasportate in paese con le camionette dei militari nella chiesa di Sant’Antonio. I soccorritori cercavano di riconoscere le vittime attraverso i vestiti indossati. I carabinieri non ci permisero di andare a vedere cosa accadeva dentro. Mi ricordo anche che nella nostra casa avevamo in affitto un uomo, ex partigiano. Aveva l’incarico di ricomporre i resti nelle bare e raccontò ai miei genitori di aver dovuto segare i corpi congelati per riuscire a deporli all’interno. Negli anni successivi sono salito quattro volte sul luogo, si potevano trovare ancora resti dell’aereo.
Vittorio Ruffini nel 1956 aveva 17 anni e abitava a Pellizzano. «Il 26 dicembre io e altri due miei amici, Mario Bontempelli e Luigi Tomaselli, siamo partiti a piedi per andare ad Ossana. Quando siamo arrivati alla malga di Valpiana c’era un giornalista della Stampa di Torino che chiedeva a chi era sceso dal Giner quanto ci si impiegava a salire. C’è che diceva 4 ore, chi 5, e lui rispose di non essere in grado di farcela. Io ero intenzionato a salire. Il giornalista e lui mi diedero la macchina fotografica per scattare delle foto con l’obbligo di tornare entro le 18. Una volta arrivato c’erano sulla neve le valigie, una era aperta. Il bagno nella coda dell’aereo aveva la luce accesa. Vidi anche il viso dell’hostess senza la pelle. Il pilota a faccia in giù con la divisa a pezzi. Ricordo che mia madre mi aveva messo del caffè nello zaino ma era impossibile berlo da quanto si era congelato. Non ricordo di essere riuscito a scattare le foto. Non mi chieda come ho fatto a salire in quelle condizioni perché non avevamo vestiti adatti per proteggerci dal freddo. In quei giorni accadde anche un incidente dove morirono due sorelle in auto, mentre salivano verso Ossana, spinte dalla curiosità di assistere ai soccorsi».