Salute

sabato 13 Aprile, 2024

Demenza, Lombardi (Apss): «Facciamo oltre 5mila visite all’anno, sono aumentate del 37%»

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La coordinatrice di geriatria spiega: «Fondamentale il tempismo della diagnosi, un terzo dei casi si può prevenire»

Nel 2023 i 12 Centri per i disturbi cognitivi e le demenze (Cdcd), sparsi in quasi tutta la provincia, hanno effettuato circa 5.100 visite, di cui 2mila prime visite. Nell’anno precedente le visite totali erano state circa 4.400, nel 2019, escludendo il periodo Covid, circa 3.700. Questo significa che nel giro di soli quattro anni il volume di attività (e di richieste) è aumentato del 38%. A testimonianza di come le demenze siano sempre più diffuse in relazione all’invecchiamento della popolazione. A riferire i dati è Alessandra Lombardi, geriatra, coordinatrice della rete dei Cdcd e della rete clinica delle demenze dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari (Apss). «Dobbiamo fare di più sui fattori di rischio e nella fase intermedia tra la prima visita e la diagnosi», dice la dirigente medica.
Quali sono i tempi di attesa per una prima visita al centro demenze?
«Si attestano intorno ai due mesi. A volte l’attesa può durare anche di più, altre volte meno. È uno dei dati più bassi in Italia. Cerchiamo sempre di assegnare la seda più vicina. E abbiamo attivato anche un progetto con i medici di medicina generale che permette di garantire una maggiore tempestività nella diagnosi. Nell’attesa il medico di medicina generale può prescrivere alcuni esami, che poi saranno utili allo specialista al momento della prima visita».
In cosa consiste questo progetto?
«Si tratta di una collaborazione tra i medici di medicina generale e la rete dei Cdcd finalizzata a intercettare tempestivamente i pazienti. Hanno aderito quasi tutti i medici. Sono stati formati per utilizzare un importante strumento (GpCog) che permette di rilevare deficit cognitivi nell’ambulatorio di medicina generale. Se emerge un caso sospetto, il medico invia l’impegnativa per la prima visita al Cdcd. I medici di medicina generale indirizzano i pazienti in maniera piuttosto appropriata, purtroppo a volte abbiamo un ritardo, ma perché le famiglie non sempre sono in grado di intercettare i segnali della demenza».
Quante persone sono assistite dall’azienda sanitaria?
«Da alcuni anni stiamo applicando un sistema di rilevazione interna che permette di misurare, non solo le demenze, ma anche lo stato di salute della popolazione. Grazie a questo strumento riusciamo a dire quanti pazienti sono presi in carico per un problema di demenza. Siamo gli unici in Italia perché in altre regioni le attività dei centri non sono integrate con i sistemi informativi. Ovviamente sono stati applicati dei filtri per rendere anonimi questi dati. L’ultima elaborazione è relativa al 2022: su una stima di circa 8mila casi, circa 6mila sono assistiti».
Renzo Dori, presidente dell’associazione Alzheimer Trento e alla guida della Consulta provinciale della salute, ha denunciato l’assenza di una rete di servizi a supporto dei pazienti e delle loro famiglie nella fase precedente alla diagnosi (il T di ieri). Si tratta di una lacuna?
«I servizi pre diagnosi sono in un certo senso una contraddizione intrinseca: se non ti valuto, se non conosco il bisogno, non posso erogare un servizio. Però Dori ha messo in evidenza l’importanza di intercettare quella fascia di popolazione con una fragilità cognitiva lieve, circa 8.500 casi in Trentino. Non è detto che queste persone siano destinate a soffrire di una forma di demenza, ma sono considerate a rischio. In questo senso, attivare interventi che vadano a promuovere stili di vita attivi, che vadano a stimolare l’attività cognitiva e a promuovere una gestione migliore della comorbidità, può essere molto importante. Intervenendo sui fattori di rischio – come bassa istruzione, fumo, depressione, isolamento sociale, inattività fisica – potremmo prevenire il 30% dei casi di demenza».
Su cosa bisognerà lavorare in futuro?
«Non siamo così forti nel proporre percorsi di riabilitazione cognitiva nella fase che va dalla prima visita alla diagnosi. Come ambulatorio abbiamo avviato alcune esperienze in tal senso, ma servirebbe un’integrazione di risorse importante: servirebbero fisioterapisti, dietologi, neuropsicologi. Tutte figure che dovrebbero condurre gruppi per le attività di stimolazione cognitiva e di monitoraggio dell’evoluzione della malattia».
Negli ultimi anni cosa è stato fatto?
«Dal 2013 è operativo un tavolo nazionale per le demenze al ministero della Salute. Da un paio d’anni questo tavolo è stato formalizzato nella sua composizione: sia io che la dottoressa Gilli della Provincia facciamo parte del tavolo. Dunque, dal 2013 l’Azienda sanitaria collabora sia con il ministero sia con l’Istituto superiore di sanità. Su indicazione nazionale, inoltre, l’Azienda sanitaria opera in sinergia con il tavolo di lavoro multidisciplinare istituito anche a livello provinciale. Nel 2017 la Provincia ha finanziato le azioni del piano provinciale con un’integrazione dei fondi, che ha permesso di assumere personale dedicato, tra cui terapisti occupazionali e neuropsicologi. È stata potenziata anche la rete territoriale: oggi abbiamo un ambulatorio Cdcd in quasi ogni ambito territoriale, con una presenza maggiore negli ambiti più popolati. Infine, sempre come Azienda sanitaria, collaboriamo nelle campagne di informazione come Comunità amiche e in attività come Alzheimer Fest».