la storia
sabato 11 Marzo, 2023
Ciki Bam, una vita fra barre e poesia. «Dal Waikiki a oggi porto il rap in città»
di Sara Alouani
L’artista, napoletano di nascita ma trentino di adozione, da piccolo scriveva racconti dalle trame più assurde. Poi l’incontro con la musica di Jovanotti che ha aperto un nuovo mondo

Ernesto di Stefano, 30 anni, napoletano di nascita ma trentino di adozione dal 1996, anche se alle guglie dentate non si è abituato con facilità. A tre anni, lo racconta lui stesso, a Trento stava «molto male» e la mamma si vedeva costretta a «rispedirlo dal nonno a Napoli» dove si sentiva a casa cullato dal suono delle onde del suo mare. Ciki Bam, questo il suo pseudonimo da rapper, è uno dei precursori dell’ondata di musica trap e rap che sta sempre più coinvolgendo i giovani del Trentino. Nella sua carriera ha tenuto concerti in tutta Italia e nel suo palmares troviamo collaborazioni con artisti importanti come Bassi Maestro e Inoki. Qualche giorno fa ha pubblicato il suo nuovo singolo «Ancora Qua».
Cominciamo dal principio. Visto che parliamo dei primi anni 2000, cosa significava essere napoletano in Trentino all’epoca?
«Molto brevemente noi del sud abbiamo aperto la strada del razzismo agli extracomunitari.
Sono molti gli episodi di discriminazione che potrei elencare. Uno che ricordo con particolare indignazione successe al parco di Canova. Avevo 4 anni e volevo giocare a calcio con un gruppo di ragazzi più grandi di me. Mia madre si fece avanti e le arrivò una pallonata in faccia accompagnata da insulti e un bel ‘vattene nella tua terra, terrona’.
Anche a scuola subivo molte angherie, spesso venivo etichettato come ladro dai miei compagni di classe, altre volte mi dicevano che puzzavo. Non colpevolizzo i bambini, che ritengo essere ingenui, quanto i genitori: chissà che cosa inculcavano nelle loro teste».
Ha iniziato a rappare per sfogarsi in qualche modo?
«A dire il vero il rap è venuto più tardi. Da piccolo scrivevo molto nel mio diario dove mi raccontavo giorno per giorno, ma redigevo anche poesie, racconti dove inventavo trame assurde. Ho sempre avuto un po’ l’animo poetico; a scuola scrivevo poesie sui temi di matematica e una delle mie maestre un anno raccolse tutti i miei scritti in un libro che cominciava proprio con una poesia che lei mi aveva dedicato. A 7 anni ho anche collaborato con il giornalino ‘Gardol City’ sul quale avevo pubblicato una storia ambientata in una Gardolo fantastica».
Come ha trasformato i suoi racconti in barre?
«A 11 anni, mentre rientravo dal concerto dei Tiromancino, in macchina è partita una serie di canzoni di Jovanotti. Il ritmo mi ha rapito subito ed ho cominciato a raccontare storie sulla musica cambiando il testo delle canzoni. Mi si è aperto un mondo nuovo».
Perché ha scelto il rap e non un altro genere?
«Il rap si avvicinava molto al mio stile di scrittura, non avrei mai potuto fare pop o rock, inoltre, nel rap non serve una vocalità importante. La parte più difficile per me è stata creare la base musicale».
Per quale motivo?
«In quegli anni internet non era accessibile a tutti, quindi, mi facevo masterizzare dei cd con delle basi musicali da un amico, che ovviamente dovevo pagare. Solo qualche anno dopo sono riuscito ad usare un programma e sperimentare creandomi basi musicali da solo partendo da zero. Dal 2012 al 2016 ho lavorato nello studio di registrazione DC record a Spini di Gardolo ed ho imparato molte cose. Per il resto, sono un autodidatta e faccio tutto a orecchio».
Si ricorda il suo primo concerto?
«Al Waikiki nel 2007. Avevo appena 14 anni ed ero molto timido e con nessuna esperienza di palco alle spalle. Mentre cantavo il mio brano ‘Lasciati andare’ guardavo in terra. Era un pezzo in featuring con Alienation, un gruppo locale. Ci saranno state 20 persone a quel concerto».
Quali altri concerti le sono rimasti impressi?
«Ho aperto molti artisti come Bassi Maestro a Predazzo, i Colle der Fomento a Napoli ma la prestazione migliore in assoluto è stata l’apertura del concerto di Inoki al Centro Sociale Bruno che all’epoca era in Piazza Dante. Eravamo dieci rapper, tutti appartenenti al gruppo che avevo fondato io dal nome Ristorap, un po’ come la Ristotre. È stato assurdo, abbiamo tenuto il palco un’ora e c’era un’armonia, un mood hip hop molto bello. Il gruppo poi si è sciolto ed io ho continuato per la mia strada».
Con la sua esperienza ultradecennale da rapper, cosa ne pensa dei giovani artisti che si stanno affermando tra i quartieri di Trento?
«Conosco molti di loro, perché fin da piccoli hanno seguito le mie orme e quelle dei miei coetanei rapper. Il legame col quartiere di provenienza ci sta, nel rap c’è sempre stato questo senso di appartenenza al quartiere e si cerca sempre di portarlo in alto. Ad un certo punto, con l’età, a questo genere di cose subentrano il lavoro sodo, i concerti e la concentrazione passa altrove. È un approccio al rap molto adolescenziale quello».
Molti di questi neo-rapper parlano di droga, criminalità, malavita in modo quasi sfacciato e strafottente. Lei ha un approccio molto diverso nella stesura dei suoi testi.
«Premetto che ho avuto anch’io un passato molto burrascoso ma non ne ho mai fatto un vanto. Quando redigevo i miei pezzi, e tuttora lo faccio, penso che le canzoni verranno pubblicate su internet e saranno a disposizione di tutti, anche delle forze dell’ordine. Certamente qualche accenno alla mia vita non è mancato ma mai in modo così spudorato, ho sempre preferito usare metafore. Sono dell’idea che chi fa cose losche non sia così propenso a dirlo apertamente. Quella dei giovani d’oggi mi pare più l’ostentazione di una fantasia alimentata dai social».
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