Tribunale
venerdì 13 Giugno, 2025
Caso Sara Pedri, per Tateo e Mereu l’assoluzione è piena: «Erano severi ma non ci sono prove di maltrattamenti»»
di Benedetta Centin
Depositate le motivazioni: «Nessuna prova del clima tossico. I testimoni? Non attendibili. Apss colpevole per lo stress»

«Non vi è prova certa della creazione – da parte del dottor Saverio Tateo e della dottoressa Liliana Mereu – di un clima tossico all’interno del reparto di Ostetricia e Ginecologia del Santa Chiara di Trento». Dagli atti «non emerge la loro colpevolezza, oltre ogni ragionevole dubbio» rispetto alla contestazione di presunti «maltrattamenti continuati e in concorso» nei confronti di ventuno persone tra infermiere, ostetriche e medici del reparto (in 9 costituitesi parti civili assieme alla mamma di Sara Pedri, ad oggi scomparsa).
Il giudice Marco Tamburrino, che il 31 gennaio scorso aveva assolto i due medici «perché il fatto non sussiste», riporta in poco meno di 180 pagine di sentenza le motivazioni che hanno dettato la sua decisione. Spiegando come non c’erano i requisiti giuridici per contestare i maltrattamenti in reparto, in particolare per il mancato rapporto di para-familiarità. Come «i toni assai poco educati» a volte utilizzati dai due medici, assieme «a un clima di forte tensione lavorativa e di stress, anche per il notevole carico di lavoro», non fossero inquadrabili appunto come maltrattamenti o atti persecutori, stalking. Ipotesi da escludere, quest’ultima, visto che non era stata formalizzata querela da parte di medici e ostetriche, per i quali il giudice solleva «il forte dubbio» in merito alla loro «attendibilità e credibilità» nella ricostruzione dei fatti. Per una dottoressa ha anche disposto la trasmissione degli atti in Procura per le valutazioni sulla «falsa testimonianza». Un’altra, «demansionata», nonostante l’asserito clima, aveva intenzione di tornare in reparto. E poi, sempre per il gup, non c’è prova dell’intento doloso, del fatto che il dirigente abbia usato i suoi poteri «per nuocere ai dipendenti», per attuare «comportamenti mobbizzanti» con Mereu.
Severità non persecuzione
Certo, a detta del gup Tamburrino, l’allora primario «era sicuramente autoritario e le sue decisioni di gestione e di organizzazione, o sul piano medico, potevano anche non essere gradite a molti, cosa che aveva creato vari attriti con alcuni dei medici». Ma questi «sicuramente non sempre erano interpretati in modo corretto dai sottoposti, se non in un’ottica di mera singola punizione o di persecuzione». Insomma, «severità e autorità nella direzione dell’unità sanitaria non devono essere confuse con asserite condotte maltrattanti». Così – si legge ancora nelle articolate motivazioni – vale anche per la preposta dottoressa Mereu, il cui comportamento «veniva schematizzato come troppo rigido, imprevedibile, ingiurioso ed offensivo», «non apprezzando» però il fatto che il suo «intervento in molte occasioni fosse correttivo di modalità erronee di gestione dei casi». Era successo in due distinte occasioni anche con la ginecologa Sara Pedri, durante un cesareo e in un altro intervento, dove c’era stata «un’ulteriore manovra operatoria erronea della dottoressa Pedri». Allora Mereu aveva spostato la mano della 31enne che impugnava la pinza «nel punto esatto in cui doveva applicarla», dicendole «Questa va qui». Il giudice parla anche di «chiacchiere di corridoio» in merito alla circostanza che Mereu avrebbe picchiato con un ferro da sala operatoria la Pedri. E quando poi era stata «sgridata da Tateo», la stessa 31enne non aveva fatto «alcuna lamentela».
Caso Pedri, «la miccia»
Un caso, quello della scomparsa della forlivese, il 4 marzo 2021, dopo aver dato le dimissioni all’azienda sanitaria trentina e lasciato il reparto del Santa Chiara dove lavorava da alcuni mesi, ritenuto «una miccia che ha acceso il fuoco che ha dato adito al procedimento penale» a carico dei due medici. «Una triste vicenda interpretata mediaticamente come provocata dal reparto», eppure, scrive il giudice «gli atti processuali non restituiscono tale verità». Una «miccia di esplosione» rispetto a determinate condotte di Tateo e Mereu «che venivano ritenute troppo rigorose per il reparto e che lo rendevano, per alcuni medici e operatori sanitari, non tollerabile affatto». Un’idea che però non era condivisa da tutti: allora, quando Tateo era già stato allontanato dal reparto, in 13 medici avevano scritto una missiva interpretata come «grido d’allarme per evitare ogni strumentalizzazione» della scomparsa di Pedri. Sentore, la lettera, «di ulteriore bontà e genuinità di quello che era il reparto».
Il giudice sottolinea come «il dedotto clima terroristico in reparto venne evidenziato solo dopo la scomparsa di Pedri», di qui il dubbio se l’evento abbia scatenato «sulla relativa onda mediatica», la volontà di un gruppo di medici «di voler aprire il caso» a carico dell’allora primario (e di Mereu) «per non farlo più tornare in reparto». Un gruppo – il giudice parla anche di «fazioni» in reparto – «schierato contro il metodo di lavoro di Tateo», il quale richiedeva «un elevato standard qualitativo». Un «gruppo coeso nel volere ostacolare l’andamento del reparto come voluto da Tateo», che «non gradiva il fatto di avere un primario che aveva esigenze di rendimento lavorativo e di ritmo di prestazioni sanitarie da rendere al pubblico». Dal narrazioni c’è infatti il sentore che per stare in quel reparto il personale medico «doveva anche fare uno sforzo di adeguamento al livello richiesto dal primario e da Mereu, non potendo, di certo, ritenersi che bastasse restare nella propria “zona di comfort” precedente all’arrivo del primario, per fare andare bene le cose».
Quanto poi alle asserite urla di Tateo, riferisce il giudice che aveva sì un tono di voce «animato e concitato», ma non da «creare il mito delle urla, quasi leggendarie, per la loro tonalità». Rispetto poi alla presunta telefonata da 7 minuti con «improperi continui» nei confronti di un sottoposto, per Tamburrino non era verosimile, o meglio «il fatto è stato molto pompato». E sull’espressione «mele marce» narrata, il tono non è considerato maltrattante. Quanto ancora all’espressione «dottoressa da eliminare fisicamente» è una circostanza risultata inattendibile. Per il gup se c’erano dei richiami, dei rimproveri, da parte del primario, per degli errori, se c’era il sentore «di una costante presenza e verifica» di quello che veniva fatto in reparto, rientrava «senza dubbio, nei doveri e compiti del primario per le sue specifiche responsabilità».
«Colpa dell’Apss»
Il giudice tira in ballo anche l’Apss, parte civile nel processo. «La circostanza che l’azienda sanitaria fosse a conoscenza di una situazione di forte stress lavorativo di tutto il personale operante in reparto, nonché di difficoltà nei rapporti, con un clima di costante paura dell’errore», comporterebbe «sotto il profilo civilistico, a titolo di eventuale colpa, la responsabilità dell’Apss», in quanto ha «consentito la prosecuzione di tale situazione, di cui l’ente risultava essere a perfetta conoscenza».
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