L'editoriale

lunedì 6 Febbraio, 2023

Ateneo, i rapporti con la Provincia e il rischio indifferenza

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Al primo sguardo, fugace, i toni accesi di oggi non sono altro che cicliche contrapposizioni già esperite. Ma gli screzi fra università e Piazza Dante di questi mesi sono in realtà diversi rispetto agli anni, seppur turbolenti, della legge delega. A cambiare, rispetto al passato, è forse questo: il dialogo, seppur acceso, è venuto meno

Al primo sguardo, fugace, i toni accesi di oggi non sono altro che cicliche contrapposizioni già esperite. Sin dalla sua nascita, l’università di Trento ha attraversato stagioni di confronto, persino aspro, con la città che l’ha accolta con indolenza, soffrendo – erano gli anni Settanta – la vivacità delle contestazioni studentesche rimbombate nella lenta quiete di una provincia di montagna. Il dibattito, l’alterità, la spinta alla negoziazione continua, l’apertura al mondo e alla conoscenza sono del resto inevitabili scintille che generano occasioni di confronto. Una tensione per certi versi propulsiva, salvifica, sana, alla pari.
Altrettanto movimentato è stato il confronto con la Provincia negli anni di applicazione della legge delega, ossia la norma nata nel pomeriggio del 30 novembre 2009 a Milano quando l’allora governatore Lorenzo Dellai, con i ministri all’economia Giulio Tremonti e alla semplificazione Roberto Calderoli, siglò l’intesa che, tra le altre cose, consegnò le competenze finanziarie in materia di università dalle mani dello Stato a quelle della Provincia. Un passaggio affatto indolore che fu contestato, discusso, rigettato. E che portò a dimissioni illustri nei vertici dell’ateneo, spiazzati da una inedita riconfigurazione dei rapporti con la politica provinciale e con una nuova governance da reinventare. L’allora rettore Davide Bassi accompagnò articolo dopo articolo la stesura del nuovo statuto e si trovò a cercare un nuovo equilibrio con Piazza Dante – fu celebre la sua invettiva «Non siamo la dépendance della Provincia» – seguendo al tempo stesso il profondo dibattito dentro alla comunità accademica.
Sono stati anni intensi, in cui due autonomie – l’università e la Provincia – hanno cercato di costruire una relazione fondata sullo scambio reciproco. L’approvazione del nuovo statuto, era il 2012, ha cristallizzato il passaggio, ricucendo alcune ferite e lasciando sospesi alcuni dilemmi (ancora oggi la delega non trova ampio consenso, sulla sua opportunità gli interrogativi restano aperti).
Al di là del merito, ossia oltre la questione di dettaglio, nel complesso la dialettica fra le parti pareva comunque segnata dalla reciprocità, dal riconoscimento dell’esistenza di una istituzione altra con cui inevitabilmente confrontarsi. Persino nel forcing, negli sconfinamenti, c’era l’attenuante dell’interesse della politica circa il futuro della ricerca e dell’alta formazione. Non a caso gli anni seppur accesi delle legislature di Lorenzo Dellai hanno segnato nuovi investimenti e nuove strutture. Per esempio il Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (Cimec) affermatosi con Alfonso Caramazza, ma anche il Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrata (CIBio). Come a dire: l’investimento c’è stato.
Sono seguiti anni di stasi e distensione senza picchi e senza grandi novità (la finanza pubblica, meno florida, certamente non ha consentito grandi investimenti straordinari). I rapporti si sono rinsaldati, gli intoppi nel riconoscimento dell’ateneo che resta statale ma in alcuni casi è sparito dal radar del Miur sono stati superati e persino il dialogo con l’eco-sistema della ricerca s’è aggiustato.
A rompere la quiete è stato l’improvviso strappo sulla Scuola di Medicina. Per anni, con la giunta Dellai ma anche con la giunta Rossi, s’è pensato a una School of Medicine. Ipotesi bocciate dall’ateneo quindi naufragate. Con l’attuale esecutivo, come noto, le cose sono andate diversamente. L’interlocuzione con l’ateneo di Padova per innestare in Trentino una succursale della Scuola patavina, de facto superando l’interlocuzione con l’università, ha generato un attrito che ha spinto Trento a formulare una proposta in partnership con Verona, successivamente accreditata al Miur. Insomma: ora la Scuola c’è, e alla fine bene così, ma quella prima crepa nei rapporti s’è via via divaricata. A cambiare, rispetto al passato, è forse questo: il dialogo, seppur acceso, è venuto meno. Così come è venuta meno la considerazione di un interlocutore con cui è possibile collidere ma se ne riconosce l’esistenza al di là delle occasioni formali in cui si cita all’infinito qualche scritto di Bruno Kessler.
L’ultima dimostrazione del nervosismo fra le parti è recente: il rettore Flavio Deflorian ha dimostrato pubblicamente insofferenza verso la mancanza di un progetto per la sede in via Monte Baldo di Medicina. A sentire dall’assessora Stefania Segnana che le valutazioni sul trasloco sono in corso, il Magnifico ha accantonato la pazienza, chiedendo fatti più che parole. Uno screzio ormai esplicito che però segna una nuova, e pericolosa, stagione nei rapporti. Questa volta segnata non tanto dai toni – che le antologie dimostrano sanno essere persino più ruvidi – ma dall’indifferenza. Un crinale scivoloso che è bene recuperare, riscoprendo quella reciprocità che è molla per la crescita del Trentino, quindi della collettività.