L'editoriale
martedì 23 Dicembre, 2025
L’amore per gli altri e quello per sè
di Sara Hejazi
Dall'amore romantico tra persone si è passati a espressioni come «auto realizzazione» e «volersi bene», esasperando l'individualità a scapito della nostra dimensione collettiva
Essendo ormai abituati a parlare di guerra, siamo divenuti restii a parlare d’amore. Non che una cosa implichi necessariamente l’altra, né che una escluda l’altra. Piuttosto, le parole e i concetti che ci accompagnano tendono a concentrarsi, come le nuvole che seguono le correnti, in determinate aree linguistiche e semantiche a seconda dello spirito del tempo, degli umori collettivi, della cultura diffusa, del pensiero comune e delle scelte politiche, come ci racconta George Orwell. L’amore romantico, per esempio, ha avuto estrema fortuna subito dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al sostegno dell’industria cinematografica, musicale e dell’editoria.
Quando popoli svariati, ai quattro angoli del globo, si incollavano davanti agli stessi grandi film hollywoodiani, ascoltavano Elvis e «Love me do» dei Beatles, leggevano avidamente romanzi in cui storie d’amore struggenti e necessariamente eterosessuali educavano milioni di persone a credere che «sentimento, sessualità e matrimonio» fossero indissolubilmente intrecciati. Una novità assoluta del tempo divenne, così, sposarsi per amore. Dall’India all’Iran, dall’Egitto all’Italia, si celebrò questa idea, combattendo pratiche a quel punto divenute vetuste, come i matrimoni combinati, quelli per procura, i matrimoni riparatori o quelli economici. Sposarsi per amore era il nuovo modello culturale: difficile da raggiungere, ma efficace da credere. Così il cambio epocale fu il passaggio dal matrimonio come pratica pubblica, che coinvolgeva la comunità, al matrimonio come atto privato, basato sull’amore tra due persone.
L’amore fu, allora, uno dei molti agenti di privatizzazione che tra gli anni ’60 e ’90 del Novecento cambiarono completamente il nostro modo di vedere e vivere le relazioni. Questo entusiasmo amoroso andò però lentamente dissolvendosi sotto la spinta della rivoluzione digitale all’inizio del nuovo millennio. A quel punto, l’amore era ancora accreditato come un’aspirazione individuale, ma lo era a tal punto, che si manifestò in tutta la sua volatilità, fragilità e fondamentale inaffidabilità: legami «indissolubili» basati sull’amore si dissolsero sotto gli occhi increduli di religioni e istituzioni, e l’amore romantico sembrò, persino, un po’ sopravvalutato.
Ma tornando alle parole, la nostra contemporaneità sembra vivere l’imbarazzo di conciliare i residui che l’idea di amore romantico ci ha lasciato negli ultimi 70 anni e la sua recente traiettoria evolutiva: proprio in quanto sentimento volatile, l’amore sembra aver abbandonato l’altro/a, per rivolgersi per lo più verso il sé. Così, parole come «auto realizzazione» (self empowerment), il «volersi bene» e altri mantra autocelebrativi amplificati dal mondo digitale, sembrano dirci che l’unico amore possibile per gli umani contemporanei sia l’amore per se stessi.
Non si tratta di un’idea sbagliata o giusta in sé. È, però, un’idea fondata su un’illusione molto contemporanea. Quella che esaspera la nostra individualità a scapito della nostra dimensione collettiva. Noi siamo individui, ma solo in relazione alla collettività. Non può esistere l’uno senza l’altra. Funzioniamo un po’ come nel mondo subatomico: siamo particelle, ma anche onde. L’amore, al di là delle mode a cui è sottoposto, ha una funzione molto utile in questo dualismo tra individui e collettività, tra particelle e onde. È un collante, trasformatore, è una tensione che spinge ad agire. Questo lo fa solo perché sta esattamente a metà tra il sé e l’altro, non certo quando è ripiegato da un solo lato.
Immaginatevi ora distesi nei salotti della casa di Agatone, mentre vi servono il vino mescolato al miele, durante uno dei noti simposi platonici. Si comincia a discutere di Eros: non come faremmo noi oggi a una cena, cioè come scelta o realizzazione del sé o come conferma della propria identità o di quanto si è degni. Al contrario, da Agatone si parla di Eros come tema pubblico: qualcosa che accade agli umani, quindi va affrontato con parole, concetti e metafore specifiche. Eros appare come un demone la cui funzione è di spostare il sé da sé stesso: è un cammino verso ciò che non si ha. Ecco che arriva la voce della saggia Diotima, l’unica donna del simposio. Non è presente fisicamente, non potrebbe stare lì, ma è Socrate a riportare le sue parole. Diotima ci dice che l’amore è figlio di Penia e Poros (ricchezza e povertà), cioè nasce dalla mancanza, ma è ricco di creatività e di parole. Per questo è un demone che può portare tanto alla poesia, quanto alla follia; tanto alla filosofia quanto alla distruzione. In poche parole, è un tema collettivo, perché è trasformativo individualmente.
Oggi il povero amore ha poca forza nei nostri orizzonti semantici; non fonda più un ordine simbolico condiviso e la sua riduzione a rifugio emotivo non fa che limitare il suo naturale movimento, imbavagliandolo. Ripiegato su sé stesso e taciuto nella sfera pubblica, Eros sembra limitarsi a una tiepida ricerca di stabilità o una pacificata accettazione di sé come massima aspirazione. Nessuno direbbe oggi, come fece Diotima allora, che «Eros è un demone grande». I nostri demoni contemporanei hanno la pretesa di essere decodificati, addomesticati, trasparenti e magari replicabili. Il che li rende, in fondo, irrilevanti.
*Antropologa e ricercatrice