L'editoriale

sabato 20 Dicembre, 2025

Il presepe, l’hummus e il Natale

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La cucina è inclusiva: se una cosa è buona, è buona. Ma qualcuno si scandalizza per l'hummus nei piatti delle mense scolastiche toscane e definisce i suoi estimatori nemici della patria

Se la cucina italiana è un patrimonio immateriale dell’Unesco, mi domando quanto stia salendo ora dopo ora questo asset, adesso che in ogni famiglia italiana è partita la febbrile rincorsa alla tavola di Natale. Perché sul pranzo di Natale non si discute. Si discute invece a proposito del presepe, come al solito buttandola in caciara, se sia un segno di sopraffazione e prevaricazione culturale non abbastanza inclusivo, oppure all’opposto se sia una specie di marchio dell’italianità per cui è d’obbligo come l’esposizione della bandiera nei luoghi pubblici.

Ho sentito una focosa parlamentare, chiamiamola C., affermare che si tratta di esibire le nostre «radici» e «identità», anche se non si ha la fede. Chissà il povero San Francesco, quando compose quella visione umilmente concreta della sacra maternità a Greccio, da cui derivò l’uso del presepe, chissà che avrebbe detto se si fosse immaginato che la sua intuizione devota si sarebbe mostruosamente deformata in una specie di trincea, con le statuine a combattere l’ennesima guerra ideologica, come se fossero soldatini di piombo invece che santi e pastori. Lui che fece un lunghissimo viaggio per andare a parlare col Sultano d’Egitto. Lui che traspose una secolare elaborazione teologica intorno al mistero dell’incarnazione, abbassandolo dalla cattedra dei dotti alla visibile contemplazione, attraverso i volti e i panni di due poveri contadini ed un bambino, di quell’accadimento che fu la nascita di Gesù. E invece, paradossalmente, oggi del santo Patrono d’Italia, non si richiama come memoria fondativa né la mitezza, né l’amore per i poveri, né l’innamoramento per il Cristo, ma solo il presepe, tramutato in arma impropria.

L’albero di Natale resta invece un simbolo percepito come universale, e si può allestire sotto amministratori laicamente credenti o ateisticamente devoti, pur essendo l’abete, se ci si pensa, decisamente nordico e quindi divisivo. Ricordo un Natale in California in cui, rifiutandomi di utilizzare l’imitazione in plastica verde, non ebbi di meglio che allestire un cactus di Natale, con le lucine e i decori ordinamentali disseminati fra le spine. E comunque le luci, l’abete, le statuine, pur mescolando tradizioni diverse, sempre simboli di una festa cristiana sono: coerenza vorrebbe, se si professa il più indomito laicismo, che si passasse il turno anche dei cenoni. Invece nessuno decide di ammutinarsi, quando si tratta di godersi una festività e di mettersi a tavola.

Qualche giorno fa il focus della imperdibile intervista fatta da un giovane animatore di Atreju alla segretaria di Fratelli d’Italia, sorella della sorella d’Italia, fu la cruciale domanda: «Panettone o pandoro?». Che poi significa: a parlare di cibo non si sbaglia mai. Avesse chiesto «Europa o Trump?», oppure «accise o non accise?» , o ancora «evasione senza ospedali o tasse con ospedali?» avrebbe rischiato di fare politica. Meglio parlare di cibo. La medesima focosa parlamentare C. che si batte per un uso obbligatorio, per quanto sconsacrato, del presepe, ha scelto per la sua arringa settimanale sui media di colpire la fornitura di hummus nei piatti di qualche mensa scolastica toscana. Si tratta di una deliziosa crema di ceci, insaporita da sesamo e condita con olio. Probabilmente Gesù sarà stato svezzato con qualcosa di molto simile all’hummus, duemila anni fa, in Palestina. E i ceci fanno parte di molti piatti della cucina italiana. Ma la focosa ha intravisto nel povero legume un incursore nemico e ha bollato gli estimatori dell’hummus come nemici della patria e della cristianità tutta.

Mentre nelle contrade nordiche si è aperta la quarta guerra d’indipendenza fra i sostenitori della paternità austriaca dei canederli, e chi se li è sempre visti cucinare dalla italianissima nonna trentina. Il fatto è che la cucina è inclusiva. Se una cosa è buona è buona. Anche se proviene da coltivazioni oltreoceano, come patate e pomodori, trapiantati dalle Americhe ai nostri ricettari pochi secoli fa. Anche se viene da tradizioni differenti da quelle del tuo campanile.

La cucina italiana è così diversificata e stratificata nelle sue acquisizioni, contaminazioni e mescolamenti che forse la sua caratteristica principale è proprio quella di non essere definibile. Ma di significare, nei suoi gesti e nei suoi tempi, dedizione e cura. Ho conosciuto famiglie americane in cui non si è mai cucinato nulla: piatti pronti e microonde erano la rara alternativa casalinga ai fast food. Poi ci si domanda come mai alcuni abbiano poco senso dell’autenticità e riescano a digerire anche un rabbioso presidente dalla chioma color polenta.

E allora, che sia fra pochi intimi o oberato da movimentazioni di numerosissimo parentame, buon Natale a tutti. E se si può dare un consiglio, per chi ha bambini: meno schermi e più biscotti per tutti. Ma fatti assieme, con ampia profusione di farina e molti pasticci con gli stampini. A garanzia, per l’Unesco, della stabile solidità del patrimonio della cucina italiana anche nel futuro.

 

Dirigente scolastica dell’istituto comprensivo del Primiero