l'editoriale

mercoledì 3 Dicembre, 2025

L’ascensore sociale si è rotto

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Il sentimento più diffuso, specie nei Paesi a reddito più alto, è che si sia rotto il sistema che aveva consentito ad una maggioranza di elevare costantemente la propria condizione sociale ed economica. Con il rischio concreto, per qualcuno è già una certezza, che la posizione nella scala sociale nel prossimo futuro non possa che peggiorare

Da anni sentiamo ripetere che in un’economia di mercato «chiunque può farcela» purché lo voglia. È uno dei miti fondativi di quel sogno americano che ha permeato una cultura diffusa a livello globale, anche nei Paesi antagonisti degli Usa. Entrato nella cultura popolare attraverso un numero sterminato di narrazioni letterarie e filmiche, attraverso cui si è stabilito come uno dei capisaldi della tavola di valori dei sistemi liberal-democratici.
È la promessa, neppure troppo implicita, da cui sono state a lungo tenute insieme società al loro interno sempre più diverse e divise. La speranza nel buon funzionamento dell’ascensore sociale è stata la leva che ha permesso di far fronte a non pochi shock che hanno colpito le nostre società, evitando che il livello di coesione scendesse sotto una soglia critica.

Se, raffrontato ad altri periodi storici, il conflitto sociale da qualche decennio è stabilmente basso c’entra anche il perdurare dell’idea meritocratica che l’impegno prima o poi viene premiato. O, piuttosto, sarebbe meglio dire la nostalgia di quell’idea.
Perché in realtà quella promessa oggi non regge più. La realtà è ben diversa dalla rappresentazione che a lungo ne è stata fatta, e la consapevolezza di questa divaricazione ha finito per penetrare nell’esperienza comune di milioni di persone. Il sentimento più diffuso, specie nei Paesi a reddito più alto, è che si sia rotto il sistema che aveva consentito ad una maggioranza di elevare costantemente la propria condizione sociale ed economica. Con il rischio concreto, per qualcuno è già una certezza, che la posizione nella scala sociale nel prossimo futuro non possa che peggiorare.

A venire meno è la condizione che avrebbe dovuto rendere credibile quella promessa: un’effettiva uguaglianza di opportunità. Da un recente rapporto Ocse (To Have and Have Not. How to Bridge the Gap in Opportunities) emerge con chiarezza che nei Paesi più avanzati oltre un quarto delle differenze di reddito oggi dipende da fattori fuori dal controllo individuale, come il livello di istruzione dei genitori, il tipo di occupazione della famiglia d’origine, il luogo di nascita. Ed è una percentuale in costante aumento.

La retorica del «se vuoi, puoi» si dimostra una formula sempre più vuota: il punto di partenza pesa e finisce troppo spesso per condizionare i percorsi di vita individuali molto più dell’impegno personale. Conta la famiglia da cui si proviene, e conta il luogo in cui si cresce, ovvero l’accesso a scuole di qualità, ai servizi essenziali, ai trasporti, alla banda larga, a un mercato del lavoro dinamico. La geografia disegna una gerarchia dello sviluppo e per chi ha la sfortuna di restare intrappolato nelle zone grigie può diventare una zavorra che con il suo peso condanna all’immobilismo, o addirittura all’arretramento. Le aree marginali, nelle periferie urbane o rurali, corrono il rischio di essere prese in una spirale di stagnazione economica che implica opportunità decrescenti, in un avvitamento apparentemente senza rimedio.

Certo, l’ascensore sociale non è rotto ovunque allo stesso modo, ma ovunque è più lento. I Paesi che storicamente avevano investito nella mobilità – in particolare quelli nordici – mostrano segnali di peggioramento, mentre altri partono da livelli così bassi che ogni miglioramento rischia comunque di rimanere insufficiente. Per i Paesi dalle economie più stagnanti, come l’Italia, l’impatto è decisamente rilevante e ad essere colpite con maggiore durezza sono soprattutto le generazioni più giovani, cresciute tra crisi successive, salari fermi e costi della vita in aumento. In aggiunta a ciò, nel nostro Paese, dove il welfare storicamente si è affidato soprattutto all’intervento della famiglia, questa torna a essere il principale fattore predittivo delle opportunità: genitori più istruiti e più agiati trasmettono vantaggi crescenti, e lo fanno sin dai primi anni di vita. La capacità di sostenere studi lunghi, tirocini non retribuiti, corsi di formazione extra, sono «investimenti genitoriali» che ampliano divari già profondi. E sono appunto fattori di questo genere ad influire di più sulle traiettorie di vita, determinando la persistenza delle disuguaglianze di opportunità.

In questo scenario, che le politiche pubbliche faticano a compensare, non sorprende che si faccia strada un sentimento di rassegnazione o che questa si trasformi in sfiducia verso le istituzioni. Il patto sociale si incrina e monta lo scetticismo verso i valori dei sistemi liberal-democratici. Quando le persone percepiscono che il successo dipende più dalla fortuna che dal merito, il consenso sociale si trasforma in rabbia verso chi «sta sopra», alimentando polarizzazione e pulsioni anti-sistema. Se riavvolgiamo il nastro di questi ultimi venti anni non è difficile rendersi conto di quanto sia stato potente (e prevedibile) questo meccanismo. Le tracce erano troppo evidenti per giustificare la sorpresa di fronte all’avvento di fenomeni come la disaffezione politica o la virata populista delle società occidentali. Così come è altrettanto evidente che si tratta di un movimento di opinione certamente profondo ma più abile nello strumentalizzare gli effetti che non a misurarsi sulle cause. E proprio qui sta il problema di questa stagione politica.

Infatti, ha poco senso denunciare i rischi che la democrazia corre se non si è capaci di affrontarne le cause. Serve meno enfasi su slogan sulla meritocrazia e più attenzione alle condizioni materiali che permettono di contrastare la disuguaglianza di opportunità. Questo significa investire nelle prime età della vita, ridurre i divari educativi, potenziare i servizi di prossimità, garantire infrastrutture sociali. Ma soprattutto significa accettare che la mobilità sociale non è un esito spontaneo del mercato, bensì il frutto di una strategia intenzionale e continua. E, visti i limiti oggettivi delle politiche pubbliche, ciò pone il tema del riconoscimento di un ruolo sempre meno marginale del Terzo settore. O meglio ancora dell’economia sociale, in quanto insieme di soggetti che agiscono nel mercato, ma che in quanto portatori di un interesse generale non si esauriscono in esso.
Se vuole recuperare consenso questo è il principale terreno su cui la politica dovrebbe impegnarsi. Ma richiede di comprendere che la mobilità sociale non è solo un imperativo etico bensì è il motore che impedisce alla società di bloccarsi. Senza un «pareggio di opportunità» lo sviluppo delle nostre società sarà un obiettivo sempre più difficile da ottenere, e la democrazia seguiterà a perdere consenso.

*Segretario generale Euricse