La storia
giovedì 13 Novembre, 2025
«Emigrare ti cambia, ma non ti sradica»: Stefano Micheletti, il trentino che studia le migrazioni vivendo a 12 mila chilometri da casa
di Giacomo Polli
Nato e cresciuto a Bieno, ora vive ora in Cile, nella città di Talca, dove insegna all’Università di Maule dal 2016
Nato e cresciuto a Bieno, Stefano Micheletti vive ora in Cile, nella città di Talca, dove insegna all’Università di Maule dal 2016.
Una storia, la sua, che parte da lontano, dai banchi dell’università di Padova dove ha sviluppato la passione per diversi temi, tra cui quelli relativi alla cooperazione internazionale e allo sviluppo. Da lì, scelte consapevoli e in parte anche il destino lo hanno portato in Sud America, in Cile, paese in cui si è definitivamente trasferito nel lontano 2007 senza però mai dimenticare la sua terra di origine, il Trentino.
Micheletti, da Bieno a Talca: come si è sviluppato il suo percorso?
«È una storia un po’ particolare. Ho studiato scienze forestali e ambientali a Padova e negli ultimi due anni ho avuto la possibilità di personalizzare il mio piano di studi. Durante quel periodo mi sono interessato molto ai temi della cooperazione internazionale e ho seguito corsi di scienze politiche e geografia dedicati all’America Latina. Ho avuto la possibilità di fare un tirocinio e tra le mete disponibili c’era anche il Cile, così nel 2005 sono venuto qui per sei mesi e ho collaborato con una fondazione. Poi, tornato in Italia e ottenuta la laurea, ho scoperto che l’Università di Padova organizzava un master in cooperazione allo sviluppo proprio in collaborazione con l’Università di Talca, dove avevo già fatto il tirocinio».
Così ha scelto di tornare.
«Sì, nel 2007 sono tornato a Talca, una città di circa 200 mila abitanti al sud di Santiago. Dopo il master ho ricevuto subito un’offerta di lavoro, proprio nella fondazione dove avevo svolto il tirocinio. Lavoravo con contadini in situazioni di povertà. Mi occupavo di progetti di promozione e sviluppo rurale. Dopo poco più di un anno sono passato a una Ong locale dove sono rimasto fino al 2015: ho iniziato come responsabile di alcuni progetti, poi sono diventato direttore e infine presidente. Parallelamente ho cominciato a insegnare qualche corso part time all’università. Nel 2016 sono entrato stabilmente all’Università Cattolica del Maule, nel Dipartimento di Scienze Sociali».
Ora che materie insegna?
«Sociologia rurale, sociologia dello sviluppo, formulazione e gestione di progetti di sviluppo. Inoltre porto avanti un lavoro legato alla lettura e alla scrittura accademica, in collaborazione con l’editoriale dell’università. Mi piace molto leggere e scrivere e ho pubblicato un paio di libri. Cerco di trasmettere questa passione agli studenti».
Tra i libri che ha scritto anche uno sulla storia dei trentini emigrati in Cile, giusto?
«A livello di ricerca mi occupo di immigrazione, in particolare di quella italiana e trentina in Cile. Ho ripercorso una storia dimenticata, legata alle migrazioni organizzate del secondo dopoguerra. Spesso furono esperienze difficili».
Seppur lontano, continua quindi a raccontare e studiare il Trentino.
«Sono cresciuto a Bieno, un paesino di 400 abitanti. Negli ultimi tre anni sono tornato una volta all’anno, soprattutto per motivi di lavoro. Per esempio, nel 2022 sono stato in Italia per una collaborazione con l’Università di Modena. Ma prima, per sette anni di fila, non ero mai rientrato, anche a causa della pandemia. In Cile ho una famiglia: sono sposato con una cilena, Carla, e abbiamo una figlia di 13 anni, Celeste. Devo essere sincero: Bieno mi manca molto. C’è sempre la nostalgia della famiglia e del territorio. Ho lasciato casa presto, a 14 anni, per studiare a Feltre, poi sono andato a Padova, ma sono sempre stato molto legato al mio luogo d’origine. A Talca mi manca la dimensione del paese, le relazioni di comunità. Per fortuna qui vicino ci sono le montagne: appena posso ci vado. È un modo simbolico per tornare alle mie origini».
Come si trova in Cile?
«Ci sono cose che qui si vivono meglio e altre peggio. Chi emigra, secondo me, costruisce un territorio nuovo, una sintesi tra il luogo d’origine e quello d’arrivo. È un modo diverso di stare al mondo, che ti aiuta anche a capire meglio te stesso e la tua società».
Ha mai pensato di tornare in Italia?
«Per molto tempo no, ma negli ultimi anni sì, ogni tanto ci penso. L’idea del ritorno, anche se inconsciamente, resta sempre. A spaventarmi un po’ è il modello sociale cileno che è molto simile a quello statunitense: finché si lavora e si sta bene tutto funziona, ma la vecchiaia può essere complicata. Governi come quello attuale cercando di avvicinarsi a una logica più sociale, poi tra 10 giorni abbiamo le elezioni e vedremo se cambierà qualcosa. Mi piacerebbe, un giorno, tornare in Trentino. Sono poche le persone che una volta che lasciano la propria terra devono di non tornare più. Ora ho 44 anni, vedremo in futuro. Passare la vecchiaia in Trentino sarebbe bello. Sarebbe ottimo tornare quando sono ancora nel pieno delle energie, non a 88 anni (ride; ndr)».
Se fosse rimasto in Italia, crede che avrebbe avuto le stesse opportunità?
«No, per niente. Qui in Cile ho potuto intraprendere un percorso accademico in un contesto in crescita. L’università si stava sviluppando e io sono cresciuto insieme a lei. Oggi dirigo il Dipartimento di Scienze Sociali: un ruolo che in Italia, con un sistema accademico più maturo e rigido, sarebbe stato molto più difficile raggiungere».
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