L'intervista

venerdì 3 Ottobre, 2025

Matteo Righetto e il suo film girato in Trentino – Alto Adige: «Un documentario “in cammino” che racconta il futuro delle montagne»

di

Atteso per la primavera il progetto dell’autore veneto girato in regione. «I temi centrali sono la riflessione sull’alpinismo e sulle questioni dell’overtourism e ambientale». «I temi centrali sono la riflessione sull’alpinismo e sulle questioni dell’overtourism e ambientale»

«Possiamo considerare i luoghi in cui viviamo come specchio del nostro tempo? Possono offrirci indicazioni per affrontare il futuro? E se la montagna potesse parlarci, sapremmo ascoltarla? Forse non è davvero muta. Ci parla in un linguaggio che solo pochi comprendono». Sono questi gli interrogativi alla base del documentario di Matteo Righetto – regia di Marco Zuin – «Per silenzio e vento», attualmente in lavorazione tra Veneto e Trentino- Alto Adige, e in parte in Piemonte e Valle D’Aosta.
Prodotto dalla bolzanina Albolina Film, e da L’Eubage, società attiva tra Trentino e Valle d’Aosta, con il contributo e in collaborazione con Trentino Film Commission, il supporto di Montura e il patrocinio di Cai Club Alpino Italiano e Fondazione Dolomiti Unesco, «Per silenzio e vento» rappresenta una nuova tappa nel percorso artistico e civile del fine scrittore e attivista ecologista veneto, che mette al centro il legame profondo e spirituale tra esseri umani e montagna.
Il progetto sarà presentato al Mia Mercato Internazionale Audiovisivo dal produttore di Albolina Roberto Cavallini, in programma a Roma dal 6 al 10 ottobre, dove parteciperà al Co-Production Market e Pitching Forum, selezionato tra 500 progetti provenienti da 81 Paesi nel mondo. Il film sarà poi pronto per la prossima primavera.

Righetto, partiamo dal titolo, decisamente evocativo e poetico.
«Il titolo, nella preposizione “per”, può avere due possibili interpretazioni: può voler dire “per mezzo di”, “attraverso” il silenzio e il vento, o può essere visto anche come una forma di dedica/invito a fare silenzio e ascoltare i suoni della montagna. Ma è attraverso il silenzio e il vento che possiamo porci in ascolto e fare delle riflessioni nuove rispetto al nostro modo di stare in montagna, di frequentarla. Uno dei temi principali è una riflessione su cosa possa essere l’alpinismo oggi, quindi una riflessione su una rivisitazione del termine, delle sue pratiche, un tentativo di pensare a una nuova interpretazione dell’alpinismo».

Una pratica meno performativa e più riflessiva, dunque?
«Molte delle riflessioni a riguardo le ho già espresse ne “Il richiamo della montagna” (Feltrinelli 2005) e quindi sì, anche nel film, coerentemente con quanto ho già detto, ha proprio a che fare con una forma più riflessiva e meno performativa. Sicuramente questo è uno dei temi affrontati nel documentario».

È del 2016 il film «La pelle dell’orso» di Marco Segato con Marco Paolini, tratto dal suo omonimo romanzo. Del 2021 la web series «L’anno dei sette venti», anche allora al fianco di Marco Zuin. Come si è trovato a tornare al linguaggio del cinema?
«Io e Marco Zuin ci siamo conosciuti in occasione del progetto “L’anno dei sette inverni” che avevo in programma con il Teatro Stabile del Veneto. Con lui ho una meravigliosa sintonia artistica, che poi negli anni si è tramutata in vera e propria amicizia. Lavorare insieme è bellissimo e molto efficace perché ci intendiamo al volo. Io sono sempre stato molto versatile, ho scritto per il teatro, il cinema, la tv. Scrivere per il cinema è molto bello perché mi permette di unire la scrittura alla cifra evocativa dell’immagine, della musica. La scrittura deve essere orientata a consolidare una sinergia che diventi molto potente, evocativa».

Ci racconta qualcosa di più di questo documentario?
«Si tratta di un viaggio di riflessione, dove invito lo spettatore a camminare con noi. I temi centrali sono la riflessione sull’alpinismo e sulle questioni dell’overtourism e ambientale: cosa siano oggi e cosa siano state ieri e cosa saranno domani le nostre montagne. È un film che ha l’ambizione di restare, rimanere, parlare anche alle generazioni future».

Lei è molto impegnato in prima persona in iniziative di sensibilizzazione – anche come Presidente della Sezione Cai Livinallongo-Colle Santa Lucia – sul ruolo di guida che ha la montagna verso una nuova consapevolezza ecologica e sociale. Cosa l’ha spinta a intraprendere questo percorso che, seguendola anche sui social, sembra sia stato un percorso in crescendo con un’esposizione sempre maggiore su queste delicate e critiche istanze?
«Perché il mio è un impegno anche civile. Non temo di perdere lettori o follower perché, come diceva Rigoni Stern, bisogna avere il coraggio di dire di no e non di appiattirsi per ottenere consensi. La crescita in termini di lettori e lettrici è indiscutibile, c’è stata ed è stata costante nel tempo, graduale, perché è stata coerente con dei pensieri che non hanno mai cercato scorciatoie. Esporsi rispetto a temi impopolari comporta anche la perdita di qualche vantaggio rispetto ad altri. Ad esempio, alcuni festival estivi dove vado di solito quest’anno non mi hanno invitato. È chiaro che non l’hanno fatto perché il libro (sempre “Il richiamo della montagna”, ndr) era scomodo, in contesti dove non fanno altro che pompare l’overtourism. Per me è importante la reputazione, credo che un giorno verrà considerata la reputazione dell’autore, non la notorietà».

Uno dei filoni dei suoi romanzi è la ricerca dello spirito selvatico che ci unisce alla Natura. Perché, a suo avviso, dovremmo recuperarlo nella contemporaneità?
«È importante recuperarlo perché significherebbe recuperare la nostra stessa natura, la nostra più ancestrale identità, essenza, anima. In un mondo che si è votato esclusivamente alla tecnologia e allo scientismo è chiaro che noi dobbiamo recuperare la spiritualità delle cose. Questa spiritualità la troviamo in primis nella natura. Per me selvatico significa anche poetico: scoprire questo legame ancestrale con la natura significa riconoscerci e assolutamente anche recuperare quella poesia, quella sacralità della bellezza, che io vedo ormai latitare nella società di oggi».

«La pelle dell’orso» è stato una sorta de «Il vecchio e il mare» in versione alpina, nel senso che portava in sé qualcosa di profondamente archetipico rispetto al rapporto uomo-animale. Qual è la sua posizione riguardo alla questione orsi e lupi che tiene banco nel dibattito pubblico?
«Il problema riguarda la capacità di comprendere che la strada maestra è la co-evoluzione. Noi non possiamo immaginare la supremazia di una specie sull’altra nella misura in cui c’è spazio ecologico per tutte. Poi è chiaro che ci possono essere delle problematiche dove è giusto intervenire. La risposta ecologista è sempre quella che cerca un equilibro tra le parti».

Un’ultima domanda. Qual è la montagna a lei più cara?
«Le montagne mi sono tutte care, anche quelle che non conosco, perché ogni montagna ha una sua unicità. Tra quelle che conosco e che ho frequentato, alcune hanno ovviamente un valore speciale. Se vogliamo parlare di una montagna trentina, dico il Latemar, perché era una delle montagne della mia infanzia».