La catastrofe
sabato 30 Agosto, 2025
Sessant’anni fa la tragedia di Mattmark: «Le persone correvano, poi le vidi ammucchiate»
di Manuela Crepaz
Delle 88 vittime cinque erano trentine. Il racconto di Ettore Daldon, sopravvissuto: «Prestai l'accendino a mio fratello. Dieci minuti dopo lui non c'era più»

Il 30 agosto 1965, il cantiere della diga di Mattmark, nel cantone della Svizzera Vallese, brulicava di vita. Oltre seicento lavoratori, in gran parte italiani, si alternavano giorno e notte tra camion, escavatori e officine, in un’opera imponente che prometteva futuro e progresso. Ma alle 17.15 il destino si compì in pochi secondi: dal ghiacciaio Allalin si staccarono due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti. La massa si abbatté sul fondovalle, travolgendo alloggi, dormitori e mensa. Morirono in 88: 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. Cinque erano trentini: Costante Renon e Ottorino Daldon di Sagron Mis, Gino Furletti di Riva, Primo Appolloni di Pieve di Bono e Ferdinando Degara di Tiarno di Sotto. Altri, compaesani e colleghi, scamparono per un soffio. Fu l’ultima grande catastrofe dell’emigrazione italiana e, se fosse accaduto all’ora di pranzo, la strage avrebbe potuto spazzare via l’intero cantiere.
L’emigrazione
Se la prima grande ondata migratoria trentina aveva avuto come meta le Americhe tra Ottocento e primo Novecento, nel dopoguerra furono le fabbriche, le gallerie e i cantieri svizzeri ad aprire le porte alla migrazione. La Confederazione svizzera, uscita indenne dalla Seconda guerra mondiale, aveva bisogno di migliaia di braccia per alimentare un’economia in rapida espansione. Le imprese guardavano oltreconfine, soprattutto all’Italia, da dove arrivavano uomini pronti a svolgere i lavori più duri in cambio di salari comunque più alti rispetto a quelli che avrebbero percepito a casa.
La tragedia
La tragedia di Mattmark ha segnato in modo indelebile la storia dell’emigrazione trentina: lo dimostra la voce di Ettore Daldon, che sessant’anni dopo racconta l’ultima volta che vide suo fratello Ottorino. «Sono ricordi che è quasi impossibile dimenticare, perché se chiudo gli occhi e ci penso, vedo ancora la scena come fosse un film». Era poco sopra al cantiere quel pomeriggio. «Ho sentito il rombo, poi ho visto scendere il ghiaccio. Questione di secondi. Le persone cercavano di scappare: prima camminavano veloci, poi correvano a passi di due metri, e infine si sono levati per aria. L’onda d’urto le ha ammucchiate dall’altra parte della valle». Aveva incontrato il fratello poco prima. «Era passato a chiedermi l’accendino. Gliel’ho dato e gli ho detto: riportamelo dopo. Non sono passati dieci minuti che non c’era più». Ottorino aveva 22 anni. Ettore, che ne aveva quasi 25, gli voleva un gran bene e desiderava il meglio per lui: lo aveva sostenuto negli studi da meccanico, pagandogli i corsi. Ottorino aveva trovato lavoro vicino a Zurigo: un buon impiego ma poco remunerato; per questo aveva deciso di raggiungere il fratello a Mattmark, dove le paghe erano alte. «E dopo due anni ci ha lasciato la pelle».
Quel giorno morì anche Costante Renon, vent’anni, compaesano di Sagron. Ettore si mise subito a cercarli assieme ai soccorritori: «Ci vollero quindici giorni per trovare mio fratello. Il ghiaccio aveva compattato tutto in un blocco unico. Si scavava con bulldozer ed escavatori. Sono ricordi impossibili da cancellare. Ogni volta che chiudo gli occhi, la scena ritorna come un film». Giorni difficili per tutti: racconta anche di un compaesano che si salvò solo perché in galleria. «Per giorni dormì nel letto di mio fratello, sconvolto. Uscire da quella galleria e non trovare più nulla era stato insopportabile».
L’inchiesta
Il cantiere, posto ai piedi del ghiacciaio, non era sicuro: i lavoratori avevano notato da tempo scricchiolii e piccoli distacchi. L’Allalin era notoriamente instabile. Eppure, l’inchiesta terminò con l’assoluzione di tutti gli imputati: «La catastrofe non era prevedibile», decretarono i giudici. Alle famiglie, oltre al dolore, toccò l’umiliazione di pagare metà delle spese processuali. Lo scandalo scosse l’opinione pubblica. «Emigrazione, vecchia amara nostra favola che non finisce mai», scrisse Dino Buzzati sul Corriere della Sera il giorno dopo la tragedia.
Il ricordo
A Sagron Mis, per il cinquantesimo anniversario, l’anfiteatro naturale è stato intitolato a Mattmark, nel ricordo dei due giovani compaesani morti in una tragedia che ha messo in luce gravi carenze di sorveglianza e monitoraggio dei ghiacci e resta una ferita che ancora interroga sulla sicurezza, sull’emigrazione, sulla giustizia. E che continua a vivere nelle parole di chi, come Ettore Daldon, è rimasto a raccontarla.