La lettera

venerdì 25 Luglio, 2025

Prati, la studentessa che denunciò la situazione: «La mia lettera era per la scuola, non contro. Nessuna parola sul disagio, pochi hanno voluto capire»

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«Non si trattava di colpire il Prati, ma di migliorarlo. E invece ognuno ha letto solo ciò che voleva leggere: fermiamoci»

La studentessa che aveva innescato il dibattito al liceo Prati con la sua lettera di riflessione al T Quotidiano all’indomani della diffusione della notizia sull’ispezione disposta dall’assessorato provinciale, scrive al giornale traendo un bilancio da quanto uscito in queste settimane.

 

«In questi mesi si è parlato molto del Liceo Prati. Troppo, forse. E mai abbastanza nel modo giusto. Tutto è partito da una lettera. Una voce che ha provato a scuotere gli animi. Con quella lettera non volevo colpire nessuno. Volevo soltanto far pensare. E invece – lo abbiamo visto tutti – ognuno ha letto solo ciò che voleva leggere. Qualcuno ci ha visto un attacco. Qualcuno un’occasione politica. Pochi si sono fermati a cercare di capire. Molti insegnanti hanno dichiarato di non essere a conoscenza di alcun malessere nella scuola, come se le parole di una studentessa potessero essere liquidate come invenzioni. Altri si sono spinti a dire davanti alle classi che non si scrivono lettere ai giornali, che non ci si deve lamentare pubblicamente, che si deve stare zitti. Come se il silenzio fosse un valore.
Non una parola sul disagio degli studenti, non un dubbio, non un segnale di ascolto sincero. Eppure proprio questo rifiuto così netto, così categorico di mettersi in discussione, dovrebbe far riflettere. Perché, se davvero il problema non esistesse, difendersi con così tanta veemenza?

 

Quello che è mancato, in troppe reazioni, è stato il coraggio di guardarsi allo specchio. Dire che al Prati certi problemi riguardano solo «alcuni casi particolari» è comodo. Ma chi vive questa scuola sa bene che la pressione che si respira, in certi contesti, è reale. Che non si tratta di problematiche riguardanti singoli studenti. Che ci sono docenti – non tutti, lo voglio dire chiaramente – che pensano che l’autorevolezza coincida con la durezza, che il rispetto si imponga col timore, che l’eccellenza passi dalla paura. E invece l’eccellenza, quella vera, nasce dal confronto, dal riconoscere i propri limiti, dal sapersi mettere in discussione. Dall’altra parte, nemmeno l’assessora ha colto il senso di quanto è accaduto. Ha usato la lettera come un’arma politica per colpire il Prati – una scuola molto attiva sul piano sindacale, spesso critica verso le scelte della Giunta – e ha confezionato un attacco istituzionale mascherandolo da piano di miglioramento. È stata una mossa strumentale e poco trasparente, che ha trasformato un grido d’aiuto in un’occasione di scontro. Così si è perso di vista il cuore della questione.

 

Non si trattava di colpire il Prati, non si trattava di fare la guerra a una scuola. Si trattava – e per gli studenti si tratta ancora – di migliorarla, di creare uno spazio dove si possa studiare senza paura, crescere senza umiliazioni, imparare senza che l’ansia diventi un peso quotidiano. Perché noi studenti al Prati ci teniamo, e proprio per questo chiediamo che venga trattato con la cura che merita – la stessa che noi meritiamo. Invece no: tutti si sono affrettati a scegliere da che parte stare, senza mai fermarsi a riflettere. Ma ascoltare non è cedere. È avere il coraggio di mettersi in discussione, di capire che chi parla non sempre vuole demolire; a volte vuole semplicemente essere visto. All’esterno, ognuno ha interpretato i fatti a modo suo: chi ha letto quella lettera cercando un attacco, ha trovato un attacco. Chi voleva un pretesto per la polemica, ci ha trovato un ottimo pretesto. Chi aveva bisogno di un nemico, l’ha trovato in una studentessa. Ma quanti hanno detto che si può criticare un’istituzione anche volendole bene? Quanti hanno letto quella lettera per quello che era davvero?

 

Io lo chiedo ora, per l’ultima volta: fermiamoci. Proviamo a fermarci, a fare silenzio. Ma non quel silenzio imposto da chi vuole zittire. Il silenzio di chi ascolta. Il silenzio di chi prova a capire. Il silenzio di chi, davanti a una voce che grida, non risponde con un’altra voce che accusa, ma si prende il tempo di accogliere. Perché è questo il punto: se una studentessa trova il coraggio di raccontare un malessere, il compito di chi ha potere non è negarlo. È ascoltarlo. E farsi, almeno un po’, mettere in discussione. Non tutto ciò che ci mette a disagio è un attacco, e non tutto ciò che ci viene detto con forza è un’aggressione. A volte è solo la voce di chi ha bisogno che le cose cambino, e che crede ancora che cambiare si possa».