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giovedì 10 Luglio, 2025

Malattie tropicali: uno studio di Fbk mappa il rischio in Trentino. Sotto la lente i casi di dengue e chikungunya

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I casi analizzati riguardano la trasmissione avvenuta a livello locale negli ultimi 15 anni, tra il 2006 e il 2023

C’è un legame tra le malattie tropicali e i luoghi dove, cinque anni fa, esplose per prima la pandemia da Covid: sono le aree metropolitane e suburbane del Nord Italia, specialmente le due grandi conurbazioni che si estendono da Milano verso est, in Lombardia, e da Venezia verso l’entroterra padovano e trevigiano quelle in cui rischiano di formarsi dei focolai autoctoni di malattie tropicali come la dengue e la chikungunya. E il Trentino? Pur rimanendo ai margini, non è escluso dal pericolo. È quello che sostiene uno studio della Fondazione Bruno Kessler, dedicato alle malattie tropicali. Soprattutto quelle due che hanno visto, negli ultimi anni, casi importati, ma persino autoctoni in Italia.

Lo studio, che vede come primi firmatari Francesco Menegale e Mattia Manica, entrambi esperti di modelli matematici (nell’elenco anche l’epidemiologo Stefano Merler) parte dal principale colpevole della diffusione di queste malattie in Europa, la zanzare tigre, attestata ormai da anni in quasi tutta Italia.
Viaggi e clima
«I casi autoctoni di dengue e chikungunya — si legge nello studio — malattie che prima erano solo importate, sono in aumento negli ultimi anni in tutta l’Europa meridionale, per effetto della ripresa dei viaggi internazionali, della diffusione degli insetti vettori, e per l’aumento delle epidemie in paesi a clima tropicale e sub-tropicale».

I casi analizzati riguardano la trasmissione avvenuta a livello locale negli ultimi 15 anni, tra il 2006 e il 2023. Si tratta di un numero rilevante, soprattutto per la dengue: 1435, mentre ammontano a 142 quelli relativi alla chikungunya. Nello stesso arco di tempo, sono stati diagnosticati 388 casi autoctoni di dengue e 93 di chikungunya.
La prima malattia (mortale in meno dell’1% dei casi, se trattata e pericolosa in particolare per i bambini, arriva prevalentemente a seguito da viaggi in Thailandia, Cuba, India e Maldive per quanto riguarda dengue.
La mappa
La regione che, in questo periodo ha visto il maggior numero di casi importati di dengue è la Lombardia (oltre 300). Seguono Veneto, Emilia Romagna e Lazio, con oltre 200 casi. In Trentino ne sono attestati meno di 50, nessuno di chikungunya, di cui si sono contati una cinquantina di casi in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Lazio. Se la prima arriva più di frequente — sostiene lo studio — è però la seconda a essere a maggior rischio diffusione locale, con tempi epidemici che potrebbero superare anche le 20 settimane. Le zone a maggior rischio? In particolare la pianura padana (più della «bassa», le zone pedemontane del Veneto). In Trentino, invece, solo nelle zone di fondovalle, il rischio è minimo per la dengue (l’hanno scorso, a luglio, quattro casi importati, ma nessuna trasmissione), ma supera il 40 per cento per quanto riguarda la chikungunya, che benché più difficile da «importare» potrebbe esplodere più facilmente.
Modello predittivo
Il modello dell’Fbk è già stato testato negli anni scorsi e si è rivelato — dicono i ricercatori — efficace.
«Tutte le aree in cui si è verificata una trasmissione locale e focale dei due virus in Italia erano fra quelle identificate ad alto rischio nella nostra analisi. Tuttavia sono state trovate anche molte altre aree con condizioni ecologiche simili, e potrebbero quindi essere ugualmente a rischio in caso di importazione di casi dall’estero. Questo implica che le misure di prevenzione e di sorveglianza devono essere orientate verso le aree con condizioni ambientali favorevoli, sia che abbiano già avuto focolai, sia che non abbiano ancora identificato casi contratti sul territorio».
Secondo lo studio, una volta identificati i focolai autoctoni, l’indice di trasmissibilità è stato portato sotto la soglia epidemica in poco tempo, circa due settimane, a supporto della qualità degli interventi reattivi di controllo.

Rimane, tuttavia, un certo ritardo nell’identificazione dei casi: «Nelle regioni non endemiche, come l’Italia – la conclusione -è importante aumentare la consapevolezza delle patologie emergenti trasmesse da vettori perché una diagnosi ritardata o mancata rallenta il rilevamento dei focolai e quindi la possibilità di controllarli».