L'intervista

sabato 7 Giugno, 2025

Referendum, Carlo il Cane diventa un progetto corale: tra i fumettisti c’è anche Elena Cecchettin

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Il creatore del personaggio: «Sul tema della cittadinanza ho sentito molto emozione, la partecipazione ci sarà»

A lottare per un referendum in cui vincano cinque sì, ma soprattutto che raggiunga il quorum c’è anche un cane o, meglio, un branco di cagnacci determinati a portare al voto quante più persone possibili. Si tratta dell’autore, o meglio degli autori, da qualche settimana a questa parte di Carlo il Cane. Il protagonista di una striscia quotidiana che era già comparso un anno fa sulle pagine del «T» ai tempi della pubblicazione del suo primo libro. Ora Carlo il Cane, che è sia l’autore che si nasconde dietro la maschera, sia il nome del suo amico a quattro zampe, ha aperto il suo progetto alla partecipazione con altri autori che hanno disegnato il proprio Carlo, tutti lanciando un appello per il voto. Un invito a partecipare che ha visto la risposta di molte persone tra cui anche Elena Cecchettin. Nascosto dietro il suo pseudonimo l’autore ci ha raccontato come questo progetto di partecipazione diretta è nato di pari passo con il più importante appuntamento di democrazia diretta recente: il referendum dell’8 e 9 giugno.

 

Carlo, ci eravamo lasciati un anno fa dopo la pubblicazione del suo primo libro. Nel frattempo cos’è successo?
«Che sono un po’ sparito, perché avevo bisogno di lavorare. Parlo di quel lavoro che mette il pane in tavola, visto che in Italia con i libri non si campa. C’è stato un periodo di risacca, anche di stanchezza. Fare una striscia al giorno sull’attualità, con tutte le brutte notizie che circolano, è stancante. Soprattutto se si è soli, come me. Infatti, da tempo pensavo di aprire questo progetto. Fin dall’inizio, la maschera mi è servita a proteggere la mia identità: mi permette di esprimermi liberamente e di lasciare che anche altri possano indossarla. Il fatto di aver smesso per un po’ mi ha dato tempo per sperimentare. Ho scritto due racconti: uno breve, a tema carcere, e una graphic novel su cui ora stanno lavorando due illustratrici. L’idea era quella di riposarsi un po’, dedicandosi a progetti più lunghi. Poi ho ricominciato a scrivere con costanza quando la questione in Palestina ha assunto contorni ormai incontrovertibili. È stato quello il tema che ha riacceso l’urgenza di disegnare, di denunciare, cosa che sul tema ho sempre fatto. Ho ripreso le strisce quotidiane nel momento in cui ho sentito la necessità di ribadire una posizione netta».

 

Ora la striscia quotidiana è tornata, ma come progetto collettivo. Com’è nata l’idea?
«Come dicevo, era un’idea che avevo da tempo. Poi, complice un’operazione al braccio, ho dovuto fermarmi: non potevo disegnare. Quello è stato il momento perfetto per collettivizzare il progetto. Mi sono detto: “Se non lo faccio ora, non lo farò mai”. Ho fatto due disegni faticosissimi con la mano sinistra e ho lanciato l’esca su internet. Sono andati molto bene. È piaciuta a tanti l’idea di poter prestare la propria voce a Carlo. Nel frattempo la pagina è cresciuta, è diventata una piattaforma che può dare spazio ad altri. L’idea di Carlo è maturata col tempo, come il vino. Mi è sempre piaciuta l’idea che Carlo potesse essere chiunque. A volte vengo invitato a panel sul femminismo, sull’intersezionalità. Per carità, ci vado, ma sono consapevole di essere un maschio bianco, etero, cis. Per questo ho sempre pensato che quella maschera dovesse essere indossata da chi ha le giuste sensibilità. Non voglio fare la scena alla Bojack Horseman, con tre uomini bianchi con il papillon che parlano di femminismo. Carlo oggi sono io, ma domani può essere qualcun altro: l’importante è il contenuto».

 

Com’è stata la risposta alla chiamata a partecipare? Come funziona la collaborazione?
«La risposta è arrivata subito. All’inizio scrivevamo una striscia al giorno, ora siamo a due, e ce ne sono 10-15 in attesa. Funziona così: a chi mi scrive, io spiego che al momento posso scrivere ma non disegnare. Propongo un’idea, c’è chi vuole l’intera sceneggiatura e chi solo uno spunto. Poi mando la mia parte firmando: “Carlo tuo, regole tue”. Non mi interessa se Carlo è un cane, un pappagallo, rosso o giallo. È un escamotage per veicolare un messaggio, quindi chi lo disegna lo fa a modo suo. Hanno aderito anche persone che non sono fumettisti. Ieri, ad esempio, ha disegnato una striscia Elena Cecchettin, sorella di Giulia. Non è illustratrice, ma ha visto il progetto e ha deciso di partecipare. Ci eravamo conosciuti online, quando scrissi su sua sorella. È una persona che, suo malgrado, per quello che le è successo ora ha una voce potente. Quello che dice viene ascoltato e ha cura di questa responsabilità e per questo, pur non essendo un’illustratrice di professione, si è messa in gioco. Questo perché, ripeto, l’importante è il messaggio. Hanno partecipato disegnatori, amatori, persone con seguito e persone sconosciute: è stato un percorso collettivo».

 

Da questo percorso partecipato, che sensibilità ha visto sui quesiti sul lavoro?
«Sensibilità molto diverse. Alcuni hanno ammesso di non conoscere bene aspetti tecnici, come la responsabilità del committente. In generale, però, è emersa una grande solidarietà. La maggioranza delle persone che mi hanno scritto sono partite Iva o lavoratori senza contratto. Illustratori, freelance, migranti: un’illustratrice argentina, ad esempio, non potrà nemmeno votare. Quello che ho raccolto è un senso di comunità, di desiderio di tutele, anche da chi non rientra nelle categorie direttamente coinvolte. Una delle ultime strisce l’ho fatta con un ragazzo anarchico che ha detto: “Possiamo non riconoscere lo Stato, ma possiamo votare per migliorare le condizioni al suo interno”. Ho ricevuto moltissimi messaggi di accordo. E poi, diciamolo: quando sento la CGIL e la sinistra parlare già di analisi della sconfitta prima del voto, mi viene l’orticaria. Non siamo qui per mandare un segnale, ma per migliorare la vita a centinaia di migliaia di persone. L’analisi della sconfitta prima ancora del voto mi inquieta».

 

E sulla cittadinanza cosa dicevano i partecipanti?
«Personalmente penso che sia stato un azzardo accorpare cittadinanza e lavoro in un unico contenitore. Il rischio è di dare un assist importante alla destra. Sul lavoro, centrosinistra e centrodestra si sono comportati allo stesso modo per 15 anni. Sulla cittadinanza no: lì le posizioni sono divise. In un contesto di frustrazione, la propaganda indirizza il malcontento verso le fasce deboli. Per me, la propaganda per l’astensionismo è legata al quinto quesito. Il rischio è che sabotando quello, si sabotino anche gli altri quattro. La mia sensazione è che questo Paese sia precario, ma ancora più razzista. Se il referendum non passa, sarà un assist enorme per la destra, che dirà: “Il popolo non vuole cambiare le regole sulla cittadinanza”. È pericoloso giocarsi così la cittadinanza perché il referendum avvantaggia il No e l’astensionismo, giocano due contro uno. Un referendum solo sul lavoro forse avrebbe acceso meno emozioni, ma avrebbe avuto più copertura. Di questo, invece, non se n’è parlato quasi per niente. Un silenzio inaccettabile dei grandi giornali, delle reti private e soprattutto della televisione di stato.Paradossalmente, si sono danneggiati da soli: Meloni che va ma non ritira le schede, La Russa che fa campagna per l’astensione. Hanno sabotato un voto, che è uno strumento centrale della democrazia, e l’effetto è stato opposto. Sul tema cittadinanza ho percepito tanta emozione. È quello che attiva le persone. Zero dubbi, zero indugi. Grande calore, voglia di partecipare».

 

Ecco Carlo il cane, cosa ne pensa dei politici che fanno appelli per non andare a votare?
«Che sono come quei bambini che, per paura di perdere, prendono il pallone e dicono: “È mio, non si gioca più”. Ma la Repubblica, la politica, sono cose collettive. Fare propaganda per sabotare la democrazia vuol dire solo due cose: o non ti piace il gioco e vuoi solo vincere, oppure le regole non ti sono mai piaciute».