l'intervista

martedì 4 Novembre, 2025

Uccisa nell’attentato del Bataclan, la madre di Valeria Solesin: «Per gli attentatori non provo odio, ma disprezzo. Con il fidanzato Andrea ci vediamo ancora»

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Mercoledì 5 novembre Luciana Milani sarà a Trento, alle 18, al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, in occasione del Festival Mortali: «Abdeslam si è scusato come se avesse fatto inciampare qualcuno»

«Il dolore è sempre quello e il tempo non è affatto un cerotto, no. E la data del 13 novembre non è poi così diversa dal resto del calendario: per me ogni giorno è un anniversario ma certo la ricorrenza è momento di riflessione, le scadenze portano sempre a riflessioni. Il tempo serve perché così si sa che si deve guardare avanti: io mi sono proposta questo». Così Luciana Milani, madre della ricercatrice veneziana Valeria Solesin, tra le novanta persone che quasi dieci anni (lo saranno il prossimo 13 novembre) sono morte nell’attentato del Bataclan a Parigi, per mano di un gruppo terroristico riconducibile allo Stato islamico (Isis). Una tragedia che anche Trento non può dimenticare visto che l’allora 28enne, unica vittima italiana di quella strage, aveva conseguito la laurea triennale in Sociologia a Trento e qui aveva coltivato le sue amicizie. E pure un amore. Al tempo stava ultimando il dottorato alla Sorbona nella capitale francese dove viveva appunto con il fidanzato Andrea Ravagnani, trentino di Dro, 30 anni. Quella maledetta notte era con lei — e con sua sorella Chiara, anche lei di Dro, e il fidanzato veronese di questa — quando tre terroristi vestiti di nero (Ismaël Omar Mostefaï, Samy Amimour e Foued Mohamed-Aggad) fecero irruzione nello storico teatro armati di mitra, fucili a pompa e bombe a mano, e aprirono il fuoco sulle circa 1500 persone che assistevano al concerto degli Eagles of Death Metal. Una carneficina.
Domani sera Luciana Milani sarà a Trento, alle 18, al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, in occasione del Festival Mortali. «La vita ancora. A dieci anni dalla strage di Parigi» il titolo dell’evento con la professoressa Barbara Poggio.

L’occasione per ricordare Valeria come figlia e ricercatrice.
«Sono contenta di tornare a Trento nell’ambito di Mortali, festival che considero un’idea molto buona. Ognuno di noi vive un lutto che è motivo di riflessione. Il tema della morte non si affronta nel quotidiano, anche perché considerato un po’ un tabù: è interessante avvicinarsi a questo argomento, allungandosi sulla riflessione. Meritorio questo da parte dell’organizzazione. A invitarmi a parlare di Valeria in questo festival è stata Marina, la mamma di Andrea (Ravagnani, ndr)».

Continuare a ricordare Valeria significa tenerla in vita?
«In qualche modo è stata la sua morte a mettermi in vista: è di lei che dobbiamo parlare, mi fa piacere ricordarla. Ricordare il suo pensiero è un modo per darle voce e farla vivere e conoscere a tutti voi, specie a chi non l’ha mai incontrata. Io ho trovato ispirazione nella sua vita e nei suoi studi per continuare ad essere quella di prima (almeno ci provo) e coltivare una visione del mondo basata sulla razionalità e anche sulla speranza. Con le mie parole vorrei trasmettere il senso delle cose che stavano a cuore a mia figlia come ricercatrice, ma anche di quello che voleva portare avanti nella vita».

Le fa effetto tornare a Trento?
«Sono tornata a Parigi e torno anche a Trento. È una città carina, ricordo che venivo a trovare Valeria quando cercava casa con le amiche ai tempi dell’università».

Milani, chi era la sua Valeria?
«È stata molto determinata fin da bambina e se le cose non le andavano bene insisteva. Era sempre molto volitiva, aveva un’opinione su tutto, tanto che le dicevo “Vale non ne posso più” e la portavo a fare una passeggiata. Ma poi tutto si tempera. Era diventata una ragazza felice, una donna che ragionava molto bene, che voleva essere autonoma. Una piacevolissima compagnia, affezionata alla famiglia. La sua razionalità, speranza e responsabilità sociale ad oggi continuano a ispirare il mio cammino».

Che Valeria sarebbe diventata invece?
«Avrebbe finito il dottorato nel corso del 2016 e al tempo già lavorava alla Sorbona, assistente al Dipartimento di Demografia della sua relatrice di tesi. Era orientata alla carriera universitaria, io penso in Francia sì, non necessariamente a Parigi. Certo sarebbe stata felice di tornare in Italia, non lo escludeva, ma sapevamo che non era così facile. Lo diceva sempre che le mancavano l’Italia, Venezia, gli amici, il lido».

Che rapporto avevate?
«Non c’erano molte confidenze ma la pensavamo allo stesso modo e sapevamo che bastava uno sguardo per capirci. Lei con quello sguardo ironico e io che lo condividevo».

E con Andrea Ravagnani ha mantenuto i rapporti?
«Ci sentiamo ancora, lui oggi ha 40 anni. È rimasto a Parigi, dove lavora e ha una compagna. Quando torna in Italia passa a trovarci. La vita anche per lui è continuata…».

Le hanno tolto sua figlia eppure non ha mai parlato di odio.
«Non odio, no, fa male a chi lo prova, me ne tengo alla larga. Provo però disprezzo sì, mi sembra razionale e ragionevole e, me lo faccia dire, dovuto. Non penso perché non dovrei averlo».

Lei ha partecipato a tre udienze del processo a Parigi, sostenendo che cercava risposte, voleva capire perché quelli avessero ammazzato altri ragazzi come loro.
«Quelle risposte purtroppo non sono arrivate: il comportamento da parte degli imputati è stato reticente, hanno detto il meno possibile sulla vicenda, sui motivi, come l’avessero imparato a memoria cosa raccontare. Non è stato scavato: il perché non potevano inventarcelo».

La risposta di giustizia però c’è stata con le 19 condanne.
«Sì, è stato un processo ben gestito, in cui è stato dato spazio alle parti civili, in cui si è scelto di andare sul sicuro, con imputate persone contro le quali le prove erano consistenti. Un processo che comunque si è chiuso in pochi anni: la sentenza è arrivata in sette anni. Sentenze già definitive visto che non c’è stato appello».

In aula c’erano state anche le scuse di Salah Abdeslam, unico superstite del commando, condannato all’ergastolo.
«Scuse ridicole: si è scusato “se abbiamo ucciso dei musulmani” ha detto. Una scusa propria di chi inciampa e urta qualcuno. Intanto il dolore per noi è sempre quello e il tempo non è un cerotto».