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venerdì 10 Maggio, 2024

Torri Sequenza, il progetto non convince. L’architetto Giovanazzi: «Sono una provocazione»

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L'opinione dell'esperto ed ex presidente dell’ordine del Trentino: «Giusto lavorare in altezza ma deve esserci un limite»

Spunti di discussione interessanti, ma un progetto che sembra più una provocazione che un prospetto basato su solide fondamenta reali. Questa l’opinione dell’architetto Marco Giovanazzi, ex presidente dell’ordine degli architetti del Trentino, sul progetto dell’area Sequenza di Trento nord con le sue torri alte quasi 80 metri.
Giovanazzi che ne pensa del progetto delle torri all’area Sequenza?
«È un progetto interessante perché pone alcuni spunti di discussione importante. Detto questo, bisogna essere onesti: è un progetto impattante, che potrebbe avere un forte effetto sulla città. Lo vedo come una provocazione più che come un’ipotesi realistica. Insomma, immaginare delle torri del genere in mezzo alla valle dell’Adige è un colpo d’occhio forte. E non mi sembra neanche un’idea così innovativa».
In che senso?
«Tutto sommato l’idea di costruire in altezza, lasciando libero il terreno, è il piano che è stato attuato a Madonna Bianca con le torri. È un’idea degli anni ‘60 o ‘70, si tratta di una visione un po’ superata. Mi sembra che si torni a quell’idea di portare la campagna in città, quando quello di cui la città ha bisogno è qualità. Una città proporzionata è bella e sostenibile, non si dà qualità facendo vivere le persone in queste torri enormi. Certo, è vero che in molte parti del mondo si costruisce in altezza, ma finché si può ne farei a meno».
Bortolotti diceva che va superato il limite dei 16 metri in altezza.
«E sono d’accordo. Per questo dico che Bortolotti ha fatto bene a lanciare questa provocazione. Bortolotti ha grande spessore, è chiaro e giusto che quel limite va superato. Però va detto che passare da 16 a quasi 80 metri è un’esagerazione. Non si dà qualità alla città così».
Cos’è per lei qualità?
«Spazio urbano, spazio di città che sono poi spazi di vivibilità. Penso ai palazzi di via Rosmini con le loro facciate e le loro quinte architettoniche. Edifici aperti verso la strada, che si affacciano verso l’altro. Non edifici chiusi in sé stessi. L’urbanistica di oggi è sempre più chiusa in se stessa. Anche questo complesso immaginato in area Sequenza è completamente chiuso su sé stesso. Una persona entra in questo complesso e non è più nella città, ma in un’altra cosa, isolata chiusa in sé stessa».
Dentro torri così grandi si pone anche un tema di vivibilità?
«Sì perché poi non ci sono spazi di relazione. Non ci si conosce, ci si incontra quasi per sbaglio, con fastidio. Dobbiamo chiederci che residenzialità stiamo creando. E dobbiamo capire che idea di città vogliamo sennò sono tutti interventi isolati. Qui si fanno le torri, lì c’è il corridoio, lì mettiamo le villette. Ma dovremmo volere una città univoca, altrimenti il rischio è quello di una città arcipelago frammentata. Dobbiamo riportare la discussione sul tema dell’urbanistica, sul disegno complessivo della città. Solo dopo si possono immaginare interventi come questo che sono enormi e impattanti.