Il caso

domenica 7 Dicembre, 2025

Sospesa e demansionata, per i giudici si tratta di un provvedimento ritorsivo. Provincia condannata

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Piazza Dante ha dovuto reintegrare l’ispettrice del lavoro e risarcirla, tra danni e spese, di oltre 100mila euro

Prima il rimprovero verbale alla dipendente della Provincia di Trento da parte del suo dirigente, poi la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un giorno, quindi la rimozione dall’incarico, la revoca delle mansioni di ispettrice del lavoro e il trasferimento, con altre funzioni, in altri uffici, all’Agenzia del Lavoro, «dove era rimasta sostanzialmente inoperosa». Di fatto «sottoccupata», «demansionata», non senza sofferenze psichiche e uno stato depressivo da parte della donna, come attestato anche da una consulenza medico legale disposta d’ufficio. Una «rimozione» dichiarata però «illegittima» dai giudici.

La Corte di Cassazione, prima sezione civile, con una sentenza di poche settimane fa, ha messo la parola fine alla causa di lavoro promossa dall’ispettrice e relativa a fatti del 2016 che aveva portato già la Corte d’Appello di Trento, 4 anni fa, ad accertare la nullità delle determinazioni provinciali e dell’assegnazione ad altri uffici, ordinando la reintegrazione della dipendente nelle pregresse mansioni, quindi come ispettrice del lavoro e ufficiale di pg, condannando la Provincia a pagarle oltre 100mila euro (incluse ora anche le spese di terzo grado). Somma in cui è compreso il danno biologico, per i disturbi psico-fisici patiti dalla donna, oltre al danno patrimoniale (non invece quello da demansionamento), incluse poi le differenze retributive per indennità di funzione, le spese dei tre processi e la perizia fatta.

Da precisare che fin dalla sentenza di primo grado era stata riconosciuta la «natura ritorsiva» della sanzione disciplinare e del provvedimento di revoca delle funzioni, che rendeva «illegittima» la determinazione assunta dalla Provincia. Questa ha impugnato la sentenza d’Appello proponendo ricorso per Cassazione con ben cinque motivi ma gli ermellini lo hanno ritenuto inammissibile con condanna a pagare alla dipendente spese ed esborsi. Già la Corte territoriale aveva accertato che i fatti erano «completamente diversi» rispetto a quanto contestato alla lavoratrice. E cioè che «rientrava nell’attività di ufficio a turno fare consulenza anche a privati, datori di lavoro e consulenti», che l’iniziativa di contattare il sindacato su richiesta del consulente del lavoro rientrava in questa attività e il fatto di averlo fatto per un datore di lavoro «amico» – circostanza contestata – «non assumeva pregio ai fini della decisione in quanto la residua condotta disciplinarmente rilevante sarebbe stata comunque sproporzionata a giustificare la sanzione», visto che l’ispettrice «non aveva svolto alcuna attività illecita rispetto a una richiesta di intervento per avviare una conciliazione in sede ispettiva invece che sindacale e, soprattutto, che non aveva svolto alcuna pressione spendendo la propria funzione» scrive la Cassazione.