martedì 19 Agosto, 2025
Simone Moro: «L’Everest e gli ottomila come il Seceda, presi d’assalto dai turisti: non chiamatelo alpinismo»
di Simone Casciano
L'alpinista sarà a Malè il 22 agosto: «Attività lecita, ma chi sale con la guida sta facendo safari ad alta quota. Confortola? Ha barato, ne ho le prove»

Rimettere l’esplorazione al centro dell’alpinismo. Quella «wanderlust» raccontata da Goethe, musicata da Schubert, dipinta da Friedrich e conquistata dai grandi alpinisti nel corso della storia umana. Questo quello che vuole proteggere e preservare Simone Moro, grande alpinista italiano, che conta, unico al mondo, quattro prime salite invernali su altrettanti ottomila del mondo: Makalu, Nanga Parbat, Shisha Pangma e Gasherbrum 2. Per proteggere questo sentimento puro, alla base delle imprese alpinistiche, Moro ha scritto un libro «Gli ottomila al chiodo» che sarà al centro della sua serata a Malè venerdì 22 agosto in occasione della «Settimana della montagna». Per proteggere l’alpinismo ha deciso di parlare pubblicamente del «caso Confortola», confutando la conquista dei 14 ottomila da parte dell’alpinista della Valtellina.
Moro cosa intende per «Ottomila al chiodo». Parla per lei personalmente o per tutti?
«È un titolo volutamente provocatorio. Mi piaceva che leggendo il titolo una persona si facesse precisamente questa domanda. Io in realtà non appendo al chiodo proprio nulla e tra un mese parto per l’Himalaya. Mentre al chiodo si sono appesi gli 8mila stessi e la recente polemica con Confortola lo dimostra. Gli 8mila ormai sono solo turismo d’alta quota, che vengono scalati da turisti paganti che ci arrivano con ossigeno, sherpa che preparano la via e portatori che si caricano di tende e equipaggiamento. Non siamo ai livelli del Seceda, ma ormai le code ci sono anche sul tetto del mondo. L’unica consolazione è che c’è talmente tanta gente che non si può più barare, ci sono troppe testimonianze per dire bugie e pensare di farla franca».
Gli 8mila sono diventati turismo, è un male?
«Non necessariamente, è un’attività lecita, ma non si può chiamare alpinismo. Un turista che sale con la guida non sta facendo esplorazione, non sta sfidando i suoi limiti, sta facendo un safari costruito con una logistica sopraffina, che gli permette di arrivare sulle cime più alte della terra. Gli 8mila romantici, come sfida tra uomo e montagna non esistono più. Ormai te li offrono anche tutti e 14 come pacchetto turistico completo, con un prezzo forfettario, da completare in un tot di anni a seconda della richiesta e della disponibilità economica. Durante le belle stagioni gli 8mila come alpinismo sono morti. Se si vuole fare esplorazione bisogna andare d’inverno, provare vie nuove, cercare altre sfide».
Ma vale per tutti gli 8mila? Anche per quelli notoriamente più difficili come il K2?
«Sì ormai è così anche sul K2, sul Nanga Parbat. Una spedizione commerciale è appena salita sul K2. Gli sherpa hanno attrezzato tutto il percorso finale, come se fosse una specie di ferrata. Non c’è nulla di male, ma chiamiamole per quello che sono: ferrate d’alta quota, non alpinismo».
Ma ci sono alpinisti che compiono imprese che la interessano? Quali sono le sfide di oggi?
«Certo che ci sono, i primi nomi che mi vengono in mente sono: Francois Cazzanelli, Simon Messner, Simon Dietl e Matteo Della Bordella. Loro stanno dando vita ad un grande alpinismo su vari fronti, su vie nuove, affrontando montagne di 6 e 7mila metri ancora inviolate e tecnicamente più difficili degli 8mila. Per quelli che hanno proprio la febbre dell’Himalaya, le imprese oggi si fanno aprendo nuove vie, magari d’inverno, adottando un stile alpino leggero e veloce. Oppure andando a ripetere le grandi vie storiche aperte negli ultimi 60 anni e mai ripetute. Penso ad esempio alla via Bonatti-Mauri sul Gasherbrum 4 che ancora nessuno è riuscito a risalire. Quella sarebbe un’impresa storica».
Parlava prima del Seceda, che differenze vede con il turismo dell’Everest?
«Quasi nessuna. Sono due turismi e due turisti simili. Chiaro che salire su un 8mila è più faticoso e anche rischioso, ma l’ambizione è simile. Alcuni si fanno il selfie sul Seceda, altri sull’Everest. L’unica differenza è che chi sale sull’Everest poi si spaccia anche per alpinista».
Si è esposto pubblicamente per confutare la salita di Confortola su tutti e 14 gli ottomila, perché?
«Vorrei fosse chiaro che non è un’operazione contro Confortola, che nemmeno conosco di persona, l’ho solo incrociato. Non ho motivi di gelosia: non mi servono né la sua fama, né i suoi sponsor, né il suo status. Ho fatto le mie imprese, non cerco visibilità. L’ho fatto per amore della verità. In tutti gli sport – e l’alpinismo lo è a modo suo – il baro non è accettato: fa rabbia. Mondinelli si era già esposto sul caso Annapurna, da testimone oculare, ma rischiava di sembrare una bega personale. Allora mi sono arrivate decine di chiamate: “Simone, serve una voce autorevole”. Non mi conveniva, non mi interessa la falsa corona dei 14 Ottomila, ma l’alpinismo ha bisogno di pulizia. Io stesso ho portato Confortola al campo base del Kanchenjunga: il suo sherpa e altri presenti hanno visto e sentito che non era arrivato in cima. Ho parlato con lo sherpa, ho la registrazione: si sono fermati prima. Ho raccolto prove, testimonianze, racconti. Posso fornire tutto e non ho paura a dire la verità. La scintilla è stata quando, dopo il Gasherbrum 1 (l’ultimo 8mila salito da Confortola nelle scorse settimane, ndr), di colpo ha trasformato in 14 i suoi Ottomila, includendo anche quelli che lui stesso aveva ammesso di non aver salito. Da fuori mi hanno chiamato: “Ma così fanno gli italiani?”. Mi sono detto di no: per amore dell’alpinismo di Cassin, di Bonatti, di Messner non possiamo accettarlo. L’alpinismo è un’oasi di libertà, ma non di anarchia. Non basta una foto della quota sull’orologio: quella la posso fare anch’io da casa. Se il tuo sherpa dice che non sei arrivato, allora poi si capisce anche perché hai rubato e modificato la foto di qualcun altro. Ma questo ridicolizza il nostro mondo e alla fine ci rimettiamo tutti. Non fa bene neanche a me espormi, non vorrei trovarmi in mezzo a questo scontro, ma serviva una voce autorevole. Anche Messner mi ha detto: “È una barzelletta che non meriterebbe attenzione, se non fosse che ci sono istituzioni e politica che supportano questa persona. Per pulizia hai fatto bene a dire le cose come stanno”. Io credo che l’alpinismo non possa accettare i bari».
Quali sono i suoi prossimi progetti?
«Vado a fare una ricognizione sul Manaslu, una montagna su cui ho fallito tante volte e non mi sono mai sognato di dire che ero arrivato in cima. Ora ci torno con la voglia di arrivare in cima, salendo d’inverno in stile alpino. Lì mi incontro con Nima, un giovane alpinista nepalese di 19 anni che mi ha chiesto di farli da tutor».
Ecco una delle grandi novità recenti, sancita dalla prima invernale sul K2, è stato il protagonismo dell’alpinismo nepalese?
«Assolutamente sì e questa mia operazione con Nima vuole inserirsi in quel solco. Ora nell’alpinismo nepalese vedo tanti individualismi, la ricerca del record personale. A Nima vorrei insegnare l’alpinismo esplorativo».
Sulle alpi italiane si moltiplicano i casi di salvataggio in elicottero di escursionisti inesperti. Lei si è occupato di elisoccorso in Himalaya, succede anche lì?
«Anche in Himalaya sta succedendo, con la differenza che lì si paga mentre in Italia è tutto a carico del contribuente. C’è stato un aumento vertiginoso di presenze, accompagnato però da una diminuzione evidente della conoscenza tecnica. Ho visto persone che non sapevano neppure mettere i ramponi, o che partivano senza un’adeguata acclimatazione perché avevano solo una settimana di ferie e poi inevitabilmente stavano male. Comportamenti inopportuni che finiscono per trasformarsi in malessere fisico e in situazioni pericolose»
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