la storia
giovedì 4 Dicembre, 2025
Silvia Butti e la sua vita con l’autismo: «All’università e al lavoro il focus era sempre sulle mie difficoltà. Ma le potenzialità ci sono»
di Francesca Dalrì
Grazie al Centro per la cooperazione internazionale di Trento, la trentenne ha potuto trovare un impiego. La collega: «Grazie al suo occhio clinico, trova errori di cui nemmeno i nostri tecnici riescono ad accorgersi»
Se c’è da controllare un file Excel per assicurarsi che tutte le caselle siano compilate correttamente o se c’è da riordinare meticolosamente dei documenti, Silvia Butti è la persona giusta. «Grazie al suo occhio clinico, trova errori di cui nemmeno i nostri tecnici riescono ad accorgersi», assicura Laura Scarperi, una delle colleghe dell’ufficio amministrazione del Centro per la cooperazione internazionale di Trento. Qui Butti, trentenne con disturbi dello spettro autistico, è arrivata per la prima volta lo scorso aprile grazie a un progetto di tirocinio che presto si trasformerà in un rapporto di lavoro a tutti gli effetti. Una storia di successo che racconta come autismo e lavoro non siano un ossimoro, ma una strada possibile, alle giuste condizioni. «Da Silvia abbiamo imparato tantissimo – ha raccontato ancora Scarperi –: a dare la giusta priorità alle cose, ad abbassare i toni, a prenderci il tempo. Per questo alle aziende dico: “Non abbiate paura, potete solo guadagnarci”». La storia di Butti è stata raccontata al Polo meccatronica nell’ambito del convegno «Autismo e lavoro – Opportunità, strumenti, inclusione», promosso da Anffas Trentino in collaborazione con l’Apss, l’Agenzia del lavoro, il servizio istruzione della Provincia e i servizi sociali delle Comunità e dei Comuni. L’obiettivo era fare il punto sul progetto, avviato sei mesi fa e in scadenza a fine anno (l’auspicio, ovviamente, è quello di una proroga), chiamato Ali, acronimo di autismo, lavoro e inclusione, che ha coinvolto Anffas, Incontra e Villa Sant’Ignazio.
Butti, presto il tirocinio si trasformerà in un contratto di lavoro: una bella soddisfazione.
«Ne sono davvero felice: finalmente ho una direzione verso cui andare invece di procedere a tentoni. Finora mi ero sempre dovuta adattare ai bisogni delle realtà in cui ho fatto esperienze, questa volta invece sono stati presi in considerazione non solo le mie difficoltà ma soprattutto i miei punti di forza. Le colleghe del Centro mi sono subito venute incontro, senza pretendere che mi adattassi io: non mi sembrava vero, la loro attenzione mi ha commossa».
Cosa manca nel mondo lavorativo per imparare ad accogliere le persone con disturbi dello spettro autistico?
«Manca l’idea che sia necessario venirsi incontro e manca la capacità di normalizzare le diversità e accettarle per come sono».
Ha detto che quella al Centro per la cooperazione internazionale è stata la prima esperienza davvero positiva. Cos’è successo in quelle precedenti?
«Nella precedente esperienza lavorativa mi era stato subito detto che quello che facevo non andava bene, così mi hanno rimpiazzata. Onestamente io non me la sono sentita di dire: “Scusate, ho un disturbo dello spettro autistico e ho bisogno di aiuto in determinate cose” perché me ne vergognavo un po’. Dall’altra parte, però, non c’è stata nemmeno la possibilità di chiedere aiuto. Ricordo ancora la frase della segretaria mentre compilavo le dimissioni: “Non ha senso che tu vieni qui ad aiutarci se alla fine siamo noi a dover aiutare te”. Dopo quell’esperienza ho fatto un percorso di terapia psicologica che mi ha portata a richiedere la certificazione prevista dalla legge 68 del 1999 per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. L’Agenzia del lavoro mi ha poi messa in contatto con Anffas e ho potuto iniziare il tirocinio al Centro».
Prima del mondo del lavoro qual è stato il tuo percorso?
«Ho frequentato tutte le scuole fino al liceo scientifico a Mezzolombardo. Fin da piccola sono stata sempre molto seguita ma poi, una volta compiuti i 18 anni, mi sono sentita abbandonata a me stessa, della serie: “Il nostro lavoro l’abbiamo fatto, complimenti e arrivederci”. Purtroppo verso gli adulti con disturbi dello spettro autistico non c’è attenzione e i progetti sono pochissimi. Ho provato a iscrivermi all’università, proprio qui a Rovereto al percorso di Scienze cognitive. Le materie mi piacevano molto, ma mi sentivo troppo in competizione con gli altri compagni di corso. Io mi accontentavo di un 18 mentre loro rifiutavano i 30 se non prendevano la lode. Soprattutto, mi sentivo da meno per il percorso di vita, per esempio mi facevano notare che, a differenza loro, non ero ancora capace di fare la lavatrice o che avevo un modo strano di mangiare».
Dopo tutte le esperienze che ha vissuto, quale pensa sia l’aspetto su cui c’è più bisogno di attenzione?
«Vorrei dire a tutti che, a prescindere dal fatto di avere l’autismo, noi siamo prima di tutto persone, ognuna con le proprie peculiarità. La diagnosi clinica viene dopo, non è una sentenza e non significa che rientriamo tutti nello stesso schema. Io per esempio riesco a parlare in pubblico perché per me è come se davanti ci fosse un muro, mentalmente non mi sento in soggezione, visualizzo solo me stessa. Ci sono invece altri autistici magari con un potenziamento molto più alto del mio che hanno però molta più difficoltà da questo punto di vista».
Se dovesse raccontarci la sua di personalità, come si definirebbe?
«All’inizio pensavo di essere molto timida, poi ho scoperto di essere solo tanto introversa perché socializzare è per me molto drenante in termini di energie. Fosse per me, me ne starei in camera tutto il giorno per conto mio (ride, ndr). Mi piacciono un sacco le linee guida, categorizzare, fare elenchi in ordine alfabetico o numerico. È la mia peculiarità e per fortuna si è rivelata molto utile nel controllare tutte le celle Excel».
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