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mercoledì 31 Dicembre, 2025

Il «no» della Corte Costituzionale al terzo mandato: «Viola la Costituzione»

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Le motivazioni della sentenza che ha bocciato la legge trentina: «Limite anche per le Speciali». Per i giudici non viene intaccata l’Autonomia ma i principi della Carta e dell’ordinamento

Le ragioni del no al terzo mandato sono spiegate nel dettaglio e in punta di diritto. La Corte costituzionale ha depositato ieri, 30 dicembre 2025, le motivazioni della sentenza del 5 novembre scorso, che hanno portato la bocciatura della norma trentina che avrebbe potenzialmente allungato il «regno» di Maurizio Fugatti per altri cinque anni. La sintesi delle quattordici pagine redatte dal giudice Giovanni Pitruzzella la propone il costituzionalista Stefano Ceccanti: «Gli argomenti principali sono due. Il primo è che tale divieto costituisce un principio generale dell’ordinamento a partire dai Comuni (1993) per poi essere esteso alle Regioni (2004), come necessario temperamento in senso temporale della forma di governo ad elezione diretta del vertice dell’esecutivo. Il secondo argomento è quello dell’uguaglianza rispetto al diritto di elettorato passivo, diritto politico fondamentale». La Consulta, infatti, spiega come, «una volta fissato, quel punto di equilibrio si impone, a valle, anche alle autonomie speciali sia come principio generale dell’ordinamento che per il necessario rispetto del principio di eguaglianza nell’accesso alle cariche elettive». La decisione, che si basa su una giurisprudenza costituzionale consolidata anche per i sindaci delle regioni speciali, è importante perché — sostiene Ceccanti — «se si fossero tollerate forzature di rottura dell’equilibrio senza quel limite temporale, prima o poi, per reazione, avrebbero potuto determinarsi reazioni in senso opposto, di tipo assemblearistico, rispetto a una forma di governo che ha dato buona prova di sé, tenendo conto della debolezza del sistema dei partiti che non può far funzionare bene assetti parlamentari più tradizionali».

Non è contro l’autonomia
In sostanza, dunque, non è messa in dubbio l’autonomia, quindi la facoltà di legiferare sulla forma di governo, ma si fa rientrare il principio dei limiti dei mandati nei principi generali dell’ordinamento della Repubblica e della Costituzione. «Il divieto in questione (del terzo mandato, ndr) si impone (anche) alle autonomie speciali a tutela del principio costituzionale di eguaglianza nell’accesso alle cariche elettive. Il rispetto di tale limite non comporta il disconoscimento di quella potestà legislativa, ma significa tutelare il fondamentale diritto di elettorato passivo disciplinato da leggi generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadino e cittadino, qualunque sia la Regione o il luogo di appartenenza».

FdI: ve l’avevamo detto
«Non c’era nemmeno bisogno delle motivazioni per comprendere la ratio attraverso la quale la Corte costituzionale ha cassato recentemente la legge provinciale trentina che prevedeva una deroga al limite dei mandati per il presidente della provincia autonoma», commenta a caldo il deputato meloniano Alessandro Urzì. Che non si limita a dire «l’avevamo detto», ma va all’attacco: «La approvazione di una norma chiaramente incostituzionale ha esposto l’autonomia una assolutamente prevedibile umiliazione. Autonomia che è sembrata essere utilizzata non come una opportunità, ma come uno schermo per tentare di eludere principi di ordine costituzionale assoluto con finalità di ordine personale. Potevamo evitarcelo, come Trentino. Potevamo evitarci di essere additati come un esempio in negativo, di furbizia legislativa per gabbare le altre regioni». E il deputato torna al punto della vicepresidenza di Francesca Gerosa, che le è stata tolta dopo che il governo di Roma, su proposta dei ministri di FdI, aveva deciso di impugnare la norma trentina: «Quella ritorsione non aveva alcun fondamento, ha creato un precedente che ancora grava evidentemente sulla autorevolezza del presidente della provincia quasi sia stata una reazione di istinto personale di fronte ad un quadro che ora peraltro il pronunciamento della Corte costituzionale dimostra essere invece di valore esclusivamente giuridico».

«Supplenza del vice» addio
Dal Carroccio, il partito di Fugatti, nessun commento. Il segretario leghista Diego Binelli si limita a un laconico «ne prendiamo atto». Ma a questo punto c’è da prendere atto anche di un passaggio della sentenza che in qualche modo anticipa un eventuale no a una legge che allungherebbe la supplenza del vicepresidente nel caso il presidente decidesse di dimettersi. Nel caso specifico, se Fugatti si dimettesse nel 2027 per andare a Roma quando la legislatura finisce nel 2028. La proposta di una legge ad hoc è stata ribadita domenica scorsa su questo giornale da Achille Spinelli, ma la Corte mette già le mani avanti. Definisce l’attuale previsione di soli 12 mesi di supplenza come «marginale e non in grado di mutare l’assetto di fondo dei rapporti tra poteri proprio della forma di governo basata sull’elezione diretta del Presidente», e nello specifico, sulle dimissioni, «perché sono disciplinate solo nell’ultimo tratto del mandato». Significa che se si volesse eccedere rispetto ai 12 mesi, la supplenza non sarebbe più «marginale» e «nell’ultimo tratto del mandato». Diciotto mesi, o addirittura ventiquattro, potrebbero essere considerati troppi per la Corte, tali da mettere in discussione un principio fondamentale, quello del «simul stabunt, simul cadunt».