Speciale Olimpiadi
domenica 14 Dicembre, 2025
Franco Nones, il fiemmese che nel ‘68 interruppe il dominio scandinavo. «Quell’oro fu una scossa»
di Elisa Salvi
Il trionfo del fondista fiemmese alle Olimpiadi francesi è una pagina di storia. L'85enne ha pubblicato da poco il libro della sua vita. «Insensato paragonare la mia epoca sportiva allo sci di oggi: è cambiato tutto»
«Lo sci di fondo in Italia è nato nel 1968 a Grenoble. Da quel momento, uno sport praticato quasi solo nei Paesi Scandinavi, che messi insieme contano poco più della popolazione della Lombardia, ha superato i propri confini, conquistando la Val di Fiemme, il Trentino e, via via, tutto il nostro Paese. Il 7 febbraio, con il pettorale 26, ho vinto la 30 km olimpica e, per un curioso caso, la prima gara olimpica in Val di Fiemme andrà in scena proprio il 7 febbraio 2026». Anche chi non crede alle coincidenze non può che augurarsi che queste cifre portino fortuna all’Italia dello sci di fondo: sono infatti i numeri di Franco Nones, leggenda di questo sport e primo azzurro a conquistare una medaglia olimpica nella specialità, in mezzo a un “esercito” di atleti scandinavi e sovietici, arrivando sul traguardo con 50 secondi di vantaggio sugli avversari. Nones, oggi ottantacinquenne in ottima forma, ha appena pubblicato «Il primo oro», un libro in cui, con il supporto dell’amico Pino Dellasega, ripercorre una vita straordinaria. E basta aprire la porta del suo negozio di articoli sportivi a Castello di Fiemme per ritrovarsi davanti le scarpe, gli sci e i bastoncini di legno utilizzati in quel memorabile 7 febbraio del 1968, accanto a una collezione di fotografie di gare, campioni, sovrani, ma anche pettorali, coppe, medaglie e pagine di giornale che raccontano le sue imprese. Un piccolo museo della storia dello sci di fondo, cresciuto in Italia assieme al «ragazzo della Val di Fiemme» (come scrissero di lui i cronisti nel giorno della sua vittoria).
Franco Nones, quando ha tagliato il traguardo ad Autrans (Grenoble) ha capito subito che le sarebbe cambiata la vita?
«Perché cambiasse la vita, a quel tempo, bisognava avere la testa sulle spalle: allora i premi non c’erano, i soldi non c’erano. La maggioranza degli atleti erano militari, come me che ero nella Guardia di Finanza. Io ho avuto la fortuna che la Karhu, casa finlandese di sci e attrezzatura sportiva, mentre gareggiavo mi propose, una volta conclusa la vita d’atleta (è accaduto nel 1972 dopo le Olimpiadi di Sapporo, in Giappone), di avere l’esclusiva per l’Italia di tutti i suoi prodotti. Così, appena ho potuto mi sono congedato e, nel tempo, ho avuto fino a 800 negozi in Italia con 12 rappresentanti. Quella è stata la svolta».
La sua vittoria ha rappresentato una rivoluzione nel fondo.
«È stata una scossa, perché abbiamo capito che non eravamo da meno degli altri, ma lo è stata anche per gli atleti del Nord Europa, che vincevano tutto, e vedevano la possibilità di una nuova diffusione del fondo. Il discorso è partito da là, anche perché allora era uno sport “primitivo”, basta guardare gli sci e i bastoni Tonchino con cui ho vinto le Olimpiadi. Le piste si battevano con gli sci: si andava uno dietro l’altro a battere la pista e poi ci si allenava, altro che le “autostrade” che si fanno con i mezzi odierni. Dal 1972-73, però, c’è stato un salto in avanti».
Dagli splendidi sci di legno con cui ha vinto i Giochi, si capisce che è cambiata un’era, quanto influisce oggi l’attrezzatura nelle prestazioni?
«Ogni epoca ha i suoi pregi e i suoi difetti. Un tempo gareggiavamo tutti con sci di legno, oggi si scende in pista con quelli in pasta di carbonio. L’errore più grosso è fare confronti. C’è una grossissima differenza in tutto: i tempi delle gare sono cambiati, così come le piste e l’alimentazione, basti pensare che il nostro allenatore svedese, persona eccezionale scomparsa di recente, diceva che il medico in squadra non serve, perché se uno è sano non ha bisogno del medico e se è malato va all’ospedale. Oggi per una nazionale di 10 atleti, c’è uno staff di 15 persone, tra cui lo psicologo, il nutrizionista etc. Allora chi parlava di diete? Uno mangiava quello che gli piaceva, quello che trovava, a volte. Quando sono andato in Russia a gareggiare per la prima volta, tra il 1963 e il 1964, c’era gente che aveva fame. Parliamo, quindi, di momenti e mondi differenti».
Avrebbe mai immaginato di vedere le Olimpiadi a casa sua?
«No. Ho cominciato a immaginarlo dopo che abbiamo avuto i Mondiali: insomma tre Mondiali e una Olimpiade, in 35 anni, li possono vantare poche nazioni, forse nessuna. E se li abbiamo è per la credibilità del Trentino. Gli organizzatori sanno che quando il Trentino organizza, le cose vengono fatte correttamente. Lo dimostrano anche la Marcialonga, che dura da 53 anni, il Trofeo Topolino che da 42 anni si fa a Castello di Fiemme. E se gare così durano tanto tempo nel medesimo posto, vuol dire che grossi errori non sono mai stati fatti».
Che consigli dà agli atleti che gareggeranno ai prossimi Giochi?
«Quando degli atleti arrivano alle Olimpiadi non hanno bisogno di tanti consigli, sanno già se e dove possono arrivare. Alle Olimpiadi non si riesce a improvvisare, devi essere prima di tutto convinto di te, di quello che stai facendo perché se ti manca la convinzione o hai dei dubbi di Olimpiadi non ne vedi. In particolare, le Olimpiadi dei miei tempi: gareggiavi da solo, sciolinavi da solo, ti preparavi da solo, i tempi non te li davano ogni 100 metri. Ad Autrans ero partito con il numero 26, il primo del gruppo rosso dei migliori, io sapevo sempre i miei tempi 5 chilometri dopo perché con le radio militari mi dicevano al 15⁰ chilometro se al 10° avevo perso o guadagnato. Però, quelli che partivano dietro sapevano subito i tempi, perché anche se non c’era una gran tecnologia, ma l’orologio c’era».
Da atleta, com’è lo stadio di Lago di Tesero?
«Ci sono piste molto dure, discese molto veloci, bisogna essere atleti preparati, non si riesce a improvvisare un granché. I migliori saranno quelli che vincono, non certo uno qualunque».
Nel libro, appena uscito, c’è la sua storia ma anche quella dell’Italia del fondo.
«Il libro comincia quando ero bambino, con la mia prima comunione, poi con la prima gara da ciclista, le prime sfide di fondo e tutto quello che è accaduto dopo, le persone che ho incontrato, le esperienze che ho vissuto, nel bene e nel male. Logicamente nella vita non ci sono solo cose felici, ho vissuto la perdita dolorosa di una figlia, una tragedia difficile da sopportare. Ma la vita è così, bisogna superare anche i momenti bui, con coraggio».
Con le Olimpiadi alle porte, arrivano spesso a casa sua giornalisti e troupe da tutto il mondo per intervistarla, sta rivivendo le emozioni della sua gara?
«In realtà non ci penso molto, è passato davvero tanto tempo. Riguardando le foto, però, noto quanti compagni e amici di allora non ci sono più. E ricordo bene la gioia di tanti di loro, specie gli scandinavi, che ho frequentato a lungo ma che quel famoso 7 febbraio non sapevano più come festeggiarmi e portarmi in trionfo».