L'intervista

martedì 21 Ottobre, 2025

Dino Pedrotti, il neonatologo che ha azzerato la mortalità infantile: «Non ho fatto altro che il mio dovere. Ho obbedito a mamme e infermiere»

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A 93 anni compiuti va regolarmente in montagna - l’estate scorsa fin sul Vioz (3.645 metri) – ed è stato festeggiato al teatro Sociale, a Trento, dalle «sue» infermiere, dalle puericultrici, dai «suoi» bambini nati prematuri

C’è una giovane donna, medico-pediatra, che, quando venne al mondo pesava appena un chilogrammo. Se è sopravvissuta, se ha scelto di seguire la cura dei bambini, se oggi fa la neonatologa, lo deve al suo «anziano» collega, Dino Pedrotti, che quarant’anni fa avviò in provincia di Trento la neonatologia. E si batté come un leone con la burocrazia medica per trasferire (1990) l’ospedale infantile di via della Collina in un padiglione dell’ospedale (inaugurato nel 1969) in largo Medaglie d’oro.

«In 40 anni, in provincia di Trento abbiamo azzerato la mortalità infantile». Il medico Dino Pedrotti, che a 93 anni compiuti va regolarmente in montagna – l’estate scorsa fin sul Vioz (3.645 metri) – è stato festeggiato domenica pomeriggio, al teatro Sociale, a Trento, dalle «sue» infermiere, dalle puericultrici, dai «suoi» bambini nati prematuri e arrivati alla maturità «vivi, sani e felici» come ha titolato una fortunata pubblicazione nel 1982. Dieci anni prima aveva avviato una delle sue «rivoluzioni”, come le definisce. «Fu nel 1972 – c’era ancora aria del ‘68 e si cominciava a disobbedire – quando aprimmo le porte dei reparti dell’ospedale infantile alle mamme. Le quali, fino a quel momento erano tenute oltre il vetro, angosciate perché impossibilitate ad abbracciare i loro cuccioli».

Lei non ha mai avuto rapporti facili né con la direzione sanitaria dell’ospedale né con l’Azienda sanitaria.
«Per me sono sempre stati dei mulini a vento ed io il Donchisciotte. E in questi panni continuo ancora a lavorare. Mi chiamano in varie parti d’Italia. Adesso devo andare a Bologna; sono stato da poco a Firenze… Mi chiamano per farsi raccontare che cosa è questa neonatologia trentina che quarant’anni fa fu piuttosto rivoluzionaria».

Frequentando i neonati lei è rimasto un po’ bambino, dottor Pedrotti. Un inguaribile ottimista.
«Non è che la rivoluzione l’ho fatta io, l’hanno fatta i bambini. I quali, nella mia testa, dicono: “Guarda, Dino, che devi fare questo, devi fare quest’altro…”».

Il suo motto è «al servizio del bambino».
«Qui c’è l’esperienza dello scoutismo, del mettersi a servizio degli altri, dei più deboli. E credo che il più debole di tutti sia il bambino».

In quarant’anni la neonatologia ha fatto passi da gigante. La mortalità ridotta al lumicino.
«Non voglio appuntarmi medaglie sul petto ma l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) dice che la mortalità infantile è il miglior indice di civiltà di un popolo. C’è tutta una graduatoria. In testa c’è la Svezia e giù fino all’Afganistan».

La statistica…
«Negli anni Sessanta noi avevamo una mortalità infantile tre volte peggio della Grecia. Nel 1990, quando ci siamo trasferiti al Santa Chiara, abbiamo battuto la Svezia».

Il trasferimento dei reparti di pediatria fu un’altra fatica di Sisifo.
«Avevano un neonato di 6-7 etti. Era il 1985 e quel bambino mi ha fatto capire che stare all’Ospedalino era tragico, perché la mamma partoriva al S. Chiara dove restava una decina di giorni, e il neonato prematuro era trasferito in collina. Noi mandavano alle mamme una fotografia presa con la Polaroid. Ma quante lacrime…».

Dottor Pedrotti, quarant’anni dopo, qual è la soddisfazione più grande?
«Da vecchio scout posso dire che non ho fatto altro che il mio dovere. E il dovere di un medico è quello di mettersi al servizio del più debole. Quando mi hanno dato l’aquila di San Venceslao (8 novembre 2022) hanno intervistato le mie infermiere. E loro hanno candidamente dichiarato: in reparto non comandava Pedrotti, comandava il neonato. E io ho sempre ubbidito: al neonato, alle infermiere e alle mamme».