Il personaggio

venerdì 26 Aprile, 2024

Dal rione più tumultuoso della città al successo di «Evoè!Teatro»: l’arte di Emanuele Cerra

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A intuire il suo talento fu Renato Chiesa in Accademia a Venezia. L’incontro con il regista Massimo Navone e l’esordio sul palco grazie a «Le fantastiche avventure di Julia e Natasha» al Franco Parenti di Milano

Ci viene in mente il motto di Eraclito, «Quello che scegli, quello che pensi e quello che fai ogni giorno, è ciò che diventi», per introdurre un satiro della modernità che ha deciso di soggiornare per mestiere nelle crepe profonde dell’essere, quelle che, se proiettate su un palcoscenico, filtrate anche dal grottesco, possono persino emendare: Emanuele Cerra, attore e regista col merito di avere aperto la partita del professionismo attoriale a Rovereto, classe 1982. Un diploma in tecnica economica, una laurea in Scienze della Comunicazione, apprendistato in un giornale, cugino del compositore Renato Chiesa, dunque discendente d’una famiglia percorsa da talento musicale, ma anche letterario (il padre di Renato e Maria Chiesa, musicista il primo, autrice vivacissima di pamphlet e testi teatrali graffianti la seconda, era Guido Chiesa, drammaturgo famosissimo, che dettò legge nel teatro trentino per mezzo secolo, corroborato da disincanto corrosivo e intelligente), Cerra si sente soprattutto figlio del Brione quando era il rione più tumultuoso della città, ma anche il più verde e divertente per i ragazzini. Da giovane insofferente e vulcanico che cantava e suonava la chitarra nel gruppo Too much Bunnies (traduzione: troppo coniglietti) è diventato un grande mediatore: ideatore, fondatore e deus ex machina della prima Compagnia sperimentale di produzione e ricerca sul teatro contemporaneo della città. Teatro dal linguaggio aspro, duro, intermittente, proprio dello psichismo perché nelle fratture dell’essere troviamo il senso delle crisi contemporanee. La Compagnia, che ha fondato nel 2011 con la compagna del tempo Gabriella Italiano, oggi è di rilevanza nazionale. Nel nome, «Evoè!Teatro», c’è il disordine e il tumulto liberatorio delle Baccanti, seguaci di Dioniso, donne trasgressive e consapevoli non esattamente identificabili con le Menadi, infanticide e antropofaghe, folli discendenti da un re beota. «Ridere di noi stessi per arrivare a interrogarsi su ciò che noi siamo», sostiene Cerra. Questo lo spirito della Compagnia di cui è direttore artistico. Tra i successi troviamo «Qanon revoution» (sul complottismo, prossimamente lo spettacolo sarà al Kilowatt Festival di Sansepolcro), «Zombie Survival Kit», «Fuck me(n)», «Pezzi d’uomo», «Fame» e «Anfitrione Mon Amour», tratto da Molière, in cui Cerra è anche regista. A Mori Evoè!Teatro gestisce il teatro e programma la rassegna contemporanea «Divergenze»; a Rovereto, con «A teatro! A teatro!», per la regia di Maura Pettorruso, sta portando in scena una visita specialissima al Teatro Zandonai che sarà replicata domani, poi il 4 e 18 maggio, con l’edizione straordinaria in notturna del 21 giugno. Lo spettacolo è stato inserito dal Comune nelle celebrazioni per gli 80 anni dalla morte di Riccardo Zandonai, che coincidono con i 100 dall’intitolazione al maestro, fatto eccezionale dal momento che era ancora in vita, ma anche con i 240 dalla posa della prima pietra.

Cerra, da piccolo voleva fare l’attore?
«L’unico ad intuire il mio piglio attoriale era stato Renato Chiesa, avevo 11 anni. La formazione l’ho iniziata nel 2007, in un momento difficile della mia vita, con un corso di Andrea Pennacchi, oggi famoso come “Pojana”. In seguito mi sono diplomato all’Accademia Teatrale Carlo Goldoni, quando ancora si trovava a Venezia. Al secondo anno ero stato ammesso con minaccia di espulsione se solo uno degli insegnanti avesse dovuto lamentarsi del mio comportamento. Ero un po’ “testa calda”».

Cosa faceva di tanto grave?
«Avevo il difetto di non riuscire mai a stare zitto, finiva che facevo l’esame agli insegnanti. Mi punivano facendomi fare il battiscopa in qualche rappresentazione accademica, ma al terzo anno ci fu l’incontro con il regista Massimo Navone che mi ha aperto le porte della Scuola Paolo Grassi di Milano. Vi entrai con Gabriella Italiano, conobbi il regista Mikhail Smirnov, esordii ne “Le fantastiche avventure di Julia e Natasha” al teatro Franco Parenti di Milano e al teatro di San Pietroburgo».

Fu in quel periodo che pensò di fondare “Evoè!Teatro”?
«Il progetto è nato proprio nel periodo milanese. Con Gabriella abbiamo prodotto il primo spettacolo, in collaborazione con la Paolo Grassi. Era “TheNeroNotte”, con la regia di Cristina Belgioioso e Laura Tassi, lavoro che è andato anche al Festival dei due mondi di Spoleto, arrivando in finale al Festival Asti Scintille. Dopo una breve parentesi berlinese, nel 2012, ci trasferimmo a Rovereto, humus già ricco di realtà straordinarie, portarne una professionale che si occupasse di nuove drammaturgie era la nostra scommessa. Ma la mia storia con Gabriella stava per finire; lei tornò a Berlino cambiando completamente mestiere e iniziarono 7 bellissimi anni di lavoro intenso con Clara Setti di Rovereto e Marta Marchi di Trento, che avevano frequentato l’Accademia con noi. Sono nati spettacoli fortunati come “Bandierine al vento” e “Il drago d’oro”, con la regia di Toni Cafiero».

Nel suo Dna ci sono i talenti letterari e teatrali di Guido a Maria Chiesa, quello musicale di Renato, persino un filosofo degli Anni ’50, don Mario Chiesa.
«Renato e Maria Chiesa erano cugini di mia madre, figlia di Fausto Colombo, “il” pediatra di Rovereto del secondo dopoguerra. Ma io sono altro, vengo dal Brione, sono orgogliosamente uno degli ex ragazzini di strada che si facevano le porte da calcio tra i cancelli e scappavamo nei garage dei casermoni per giocare. Eravamo teppistelli che si divertivano sotto il livello della strada. Alcuni garage erano diventati “casa”, aprivi il box e ti trovavi davanti il materasso, il divano sfondato, assieme a motorino, TV, radio. Si era negli anni ‘80/’90. Avevamo tutti un soprannome, il mio era “Hierro” e il quartiere era soprannominato “Brionx”. Ogni volta che il Comune provvedeva a sostituire la targa col nome qualcuno, con la bomboletta spray, aggiungeva la “ics” finale. Eravamo una banda e vivevamo le prime forme di autonomia; si prendeva la bici e si girava per il quartiere sentendosi dei re e lasciando al palo l’amichetto che aveva paura di superare il confine assegnatogli da mamma, al cancello. Non tutti erano “disgraziati” come noi. Eravamo una ventina di ragazzetti in vena di marachelle con alle spalle buone famiglie».

“Pezzi d’uomo”, di Duccio Canestrini e Giovanni Battaglia, è un grande successo.
«Sì, incentrato sul maschile tossico; ci sono state più di 35 repliche in tutt’Italia. Il nostro successo dipende anche dal lavoro prezioso dei nostri collaboratori, Lorenzo Zanghielli in primis, vicepresidente, grafico, scenografo e direttore tecnico».

E la rimembranza zandonaiana?
«Giustamente tutti citano Riccardo Zandonai per la sua arte, noi lo facciamo resuscitare in carne e ossa. Io interpreto personaggi importanti per il Teatro, il Conte Alberti-Poja che ne finanziò la costruzione, l’ingegner Colomba che ne curò la prima ristrutturazione e il capitano Ferruccio Sacchetto, melomane che, con le proprie truppe, lo rese nuovamente agibile dopo che la Grande Guerra lo aveva trasformato in stalla per muli e cavalli. Grazie a lui si inaugurò l’era post bellica con “Francesca da Rimini”, ultima opera di Zandonai messa in scena a Torino prima del conflitto».