L'intervista

lunedì 24 Aprile, 2023

Cecilia Bozza Wolf al Film Festival: «Racconto il disagio delle valli»

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La regista trentina concluderà la kermesse con il suo film «Rispet», che racconta luci e ombre della vita in montagna

Film di chiusura della 71esima edizione del Trento Film Festival è Rispet, della trentina Cecilia Bozza Wolf. Nata a Castelnuovo in Valsugana nel 1989, dopo la laurea al Dams di Padova, Bozza Wolf si è diplomata alla Zelig di Bolzano con Vergot, documentario che fu presentato al Trento Film Festival e vinse nella sezione «Orizzonti Vicini». La proiezione di Rispet, in anteprima, rappresenta allora un ritorno, ma anche una grande sfida. Ne abbiamo parlato con la regista.

Cosa si prova a chiudere il Trento Film Festival?
«È una soddisfazione, perché coronamento di un grande lavoro: il film è stato girato in Trentino, con attori non professionisti (eccetto uno), e poterlo quindi vedere proiettato a Trento, vicino casa, sarà una bella occasione per tutti coloro che vi hanno preso parte e lavorato, non soltanto per me. Spero ci sarà quindi spazio anche per chi era al mio fianco di mostrarsi al pubblico e di interagirvi».

Ma per lei è anche un ritorno…
«Sì, e anche qualcosa di più. Quando ero giovane, andavo a vedere i film proiettati al cinema Vittoria. Li guardavo con ammirazione e di certo non avrei mai pensato potesse un giorno essercene anche uno mio, in quella sala. Allo stesso tempo credo che sarà una sfida: una proiezione a Trento vorrà dire misurarsi con chi il territorio che io racconto in “Rispet” lo vive. Misurarsi con la percezione dei trentini sul mio lavoro sarà una vera prova».

Chiariamo un po’ il tema. Partiamo dal titolo. Perché «Rispet»?
«Perché descrive perfettamente il sentimento che desideravo raccontare e attorno a cui ruota il film. Il “rispet”, che è contemporaneamente i due concetti opposti di vergogna e di onore, mi sembrava la causa scatenante di gran parte del malessere che si vive nelle valli alpine. Sembrava a me, ma non solo. Lo definisce infatti, molto chiaramente, anche Christian Arnoldi nel suo libro “Tristi montagne”. Nel film allora racconto una storia che è un punto di vista diverso sulla montagna, che ne mostra le ombre».

Per girarlo, ci sono voluti quattro anni. Ci racconta meglio?
«Il film è nato da un’idea condivisa con lo sceneggiatore valtellinese Raffaele Pizzati Sartorelli. Abbiamo iniziato buttando giù una storia molto vaga. Sapevamo di voler raccontare un personaggio diverso della comunità e sapevamo con che tipo di figure avrebbe dovuto interagire, ma poco altro. I personaggi si sono quindi delineati mano a mano che incontravo persone vere: non ho mai fatto un casting per “Rispet”; qualche attore veniva dal mio film precedente, qualcuno l’ho conosciuto per caso, a concerti o girando dei videoclip musicali, qualcun altro ancora, come Mara, la barista, è stato un colpo di fulmine. Formata la squadra, poi, sono iniziate le prove. I dialoghi sono stati tutti costruiti assieme: io lanciavo un arco emotivo a cui gli attori avrebbero dovuto rispondere, e loro improvvisavano. Per tirare fuori le giuste emozioni, soprattutto all’inizio, si usavano emozioni vere: un po’ “alla stanislavskij”, andavo a cercare fatti nella vita privata di ognuno, che potessero ricondurre e stimolare all’emozione. Era stancante, complesso. Ma alla fine gli attori sono diventati dei semi-professionisti, capaci di reggere tredici ciak senza cedimenti. È stato un lavoro enorme, per cui devo ringraziare tutta la troupe, che ha saputo avere il giusto tatto per collocarsi in maniera delicata in questo processo».

Ma le difficoltà non erano solo legate alla recitazione…
«No, eravamo anche in piena pandemia, con tutto il carico di ansie e di regole che questo comportava: tamponi, numeri ridotti di comparse, ecc. Una serie di fattori che miracolosamente non hanno inciso nel film, anche perché non avremmo avuto tempo o budget per settimane di stop o per buttare delle scene».

In definitiva quindi qual è la sua più grande soddisfazione?
«Sono tante: aver visto queste persone lavorare sinergicamente assieme, con entusiasmo e rispetto; aver portato a casa un risultato, essendo quasi tutti alla prima esperienza; sentirmi dire dagli attori che recitare li ha davvero aiutati ad eliminare in parte quel senso di “rispet” che li frenava… Ma anche, indubbiamente, essere riuscita a non smettere mai di crederci, nonostante le tante difficoltà e le lunghe attese».

E come si aspetta venga accolto?
«Credo che la risposta andrà in una doppia direzione, come è già successo in passato: qualcuno non riconoscerà la “sua” montagna e si arrabbierà, qualcuno la riconoscerà eccome e si sentirà capito. Ci tengo a dire, però, che ciò che racconto non nasce da una forma di disprezzo per le nostre valli, anzi. L’idea che in montagna si viva in un idillio e tutti si vogliano bene è un immaginario inventato nel Settecento da personaggi come Lord Byron. Un immaginario sempre più rimarcato nel tempo, per interessi turistici, ma a cui noi stessi ci siamo convinti di corrispondere. Eppure anche noi, come tutti, siamo umani e non figurine di una cartolina. Pertanto abbiamo dei problemi sociali, dei lati oscuri. Tirarli fuori è catartico. Questa è anche la ragione per cui spero che dopo Trento, il film possa trovare spazio in altre realtà di valle, festival o altre proiezioni».