Cultura

venerdì 17 Ottobre, 2025

Gabriele Di Luca e il libro sul bilinguismo in Alto Adige: «Si convive con due lingue ma quei mondi non si parlano»

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«Lingue matrigne» è un testo definitivo per comprendere l’Alto Adige / Südtirol: la recensione di Carlo Martinelli

Ah, la soddisfazione di arrivare all’ultima pagina di un libro – un testo tosto, un saggio che ti costringe a spremere le meningi, mica un romanzetto consolatorio – e poter dire: sì, ne vale la pena. Da queste 286 pagine (17 euro, ben spesi) si esce decisamente più ricchi. Confermati in alcune idee che pure ronzavano in testa ma che qui, nero su bianco, hanno trovato sistemazione, spiegazione, e, soprattutto, tanti di quegli spunti, financo salutari provocazioni, che la conclusione è inevitabile. Dunque va letto, se del caso riletto, «Lingue matrigne» di Gabriele Di Luca che le edizioni Alphabeta Verlag del gruppo Raetia hanno mandato in libreria una manciata di giorni fa e che ha già esaurito la prima edizione. In copertina un’opera di Benno Simma, un sottotitolo decisamente tranchant eppure implacabilmente motivato, pagina dopo pagina: «La menzogna del bilinguismo in Alto Adige/Südtirol».
A proposito: è alle porte una presentazione alla libreria due punti di Trento, in via San Martino. Sarà martedì 28 ottobre, ore 18, presente l’autore, in dialogo con Valentino Liberto.
È un viaggio brillante, documentato, certo di parte – la parte di chi osserva, interroga, legge, studia, pungola quando non «rompe» come certamente più d’uno andrà pensando tra Salorno e il Brennero – quello di Di Luca. La parte di un livornese (classe 1967) che da trent’anni risiede in Alto Adige/Südtirol, dove è insegnante e traduttore. Blogger ed editorialista, ha già più d’un libro all’attivo. Ma questo «Lingue matrigne» lo consegna alla biblioteca dei testi cui si dovrà fare riferimento, fin da ora, per interpretare una terra di confine che non è solo una perfetta cartolina turistica.

Lingue come appartenenza
La sua tesi? Eccola. Le lingue segnano un’identità, una memoria e un senso di appartenenza. Possono accogliere ma anche respingere, essere «madri» o «matrigne». E il nostro di dubbi non ne ha. In Alto Adige/Südtirol il bilinguismo viene spesso celebrato come esempio virtuoso di convivenza, ma si tratta di una retorica istituzionale e consolatoria dietro la quale si nascondono tensioni latenti e ipocrisie di una terra ancora attraversata da fratture profonde. Dalla politica alla scuola, dalla pubblica amministrazione alla sanità, dall’informazione fino ai luoghi della quotidianità, emerge una coabitazione forzata, non una vera integrazione, sostiene Di Luca. «In Alto Adige Südtirol, come ho ripetuto ad nauseam, si vive da sempre con più lingue, ma non necessariamente con mondi che si parlano. È un bilinguismo dichiarato, normato, persino celebrato, ma altrettanto spesso vissuto come una scomodità, quasi una balbuzie di Stato. Seccature da gestire, più che una ricchezza da coltivare. Il sistema ha funzionato per decenni proprio perché tutto era ben incasellato: scuole separate, media separati, partiti separati. Soltanto i bar, in un certo senso, l’hanno scampata, anche se solo a livello di auspicio».

Tedesco e dialetto
Tra italiani che non vogliono imparare il tedesco e che, ove lo facessero, si troverebbero spesso in contatto con sudtirolesi che non parlano il tedesco ma un dialetto ostico persino a chi abitasse a Berlino, si è ora inserito – ed è uno dei passaggi più illuminanti del saggio di Di Luca – un nuovo attore, un vero e proprio deus ex machina, che parla tutte le lingue, risolvi enigmi in un battito di transistor, scrive, compone, crea. Corre più veloce della mente umana, pensa in parallelo, ricorda tutto. Insomma, l’intelligenza artificiale, le macchine che «comprendono» senza sentire. Altro che miteinander, uno accanto all’altro. La terra dove vive e lavora Di Luca, è diventata il regno dell’Ohneeinender: vivere accanto, ma senza vedersi, senza percepire la presenza dell’altro. Non più conflitto etnico, ma convivenza silenziosa, sovente inconsapevole. «È come trovarsi su un treno pieno, dove ognuno tiene lo sguardo incollato allo schermo: gli altri ci sono, ma diventano sfondo. Invisibili. Inudibili. Ininfluenti. Non è ostilità, è stanchezza. È una scelta pigra: ignorare l’altro è più semplice che tentare di comprenderlo. Così si rinuncia al rischio, ma anche alla possibilità».

La pagina «tedesca» dell’Alto Adige
Si badi, non è apocalittico, il nostro. La scrittura brillante, le note a pie’ di pagina hanno divagazioni che strappano il sorriso – si va dai Matia Bazar ai Joy Division, da Lucio Battisti ad Alessandro Banda con quel suo profetico libello «Due mondi e io vengo dall’altro. Il Sudtirolo, detto anche Alto Adige» – oppure spiazzano, quando l’autore racconta degli ultimi giorni del padre. Tutto questo testimonia di un grande rispetto per la terra dove ha scelto di vivere. Non manca l’invito a misurarsi con le contraddizioni reali (ma v’è chi ascolta?) e ad immaginare nuove possibilità di convivenza (come dimenticare il lavoro bilingue del quotidiano online «Salto»?), ma «Lingue matrigne» ci consegna un punto interrogativo gigantesco: che futuro può avere un’umanità sempre più interconnessa e paradossalmente distante?
Addenda personale. Esemplare il capitolo sul bilinguismo nell’informazione con grande spazio alla vicenda della pagina in lingua tedesca che il quotidiano «Alto Adige» ospitò dal 1958 al 1999. Chi scrive ha vissuto quegli anni, in quella redazione. Ed è proprio come riporta Di Luca. Umberto Gandini, indimenticabile giornalista ma anche traduttore di vaglia, era chiamato dai direttori a spiegare cosa diavolo ci fosse scritto in quella pagina in lingua tedesca che talvolta faceva arrabbiare i politici Svp o gli editori Athesia. Problema oggi risolto: «Alto Adige» e «Dolomiten» hanno lo stesso proprietario. A proposito di lingue matrigne.