L'intervista
domenica 12 Ottobre, 2025
Flotilla, il medico roveretano Riccardo Corradini: «L’assalto degli israeliani in elicottero, poi le violenze. Noi irresponsabili? Portavamo cibo ai bambini di Gaza»
di Tommaso Di Giannantonio
Il chirurgo trentino racconta l'esperienza sulla nave Conscience e i tre giorni in carcere: «Abbiamo vissuto un’infinitesima parte di ciò che accade ogni giorno in Palestina. Noi e le piazze tasselli di una coscienza collettiva che ha detto basta al genocidio»

Venerdì sera è rientrato in Italia con due dei compagni di viaggio della Conscience, la nave della Freedom Flotilla che trasportava aiuti umanitari destinati alla Striscia di Gaza. Ad attenderlo, all’aeroporto di Torino Caselle, c’erano molte persone, tra cui la sorella Azzurra. Il padre Corrado, invece, lo ha aspettato in Trentino. Ora è tornato nella sua casa di Trento. Partito il 30 settembre dal porto di Otranto, lo scorso 8 ottobre il medico roveretano Riccardo Corradini, chirurgo di 31 anni all’ospedale Santa Chiara di Trento, è stato arrestato dalle forze israeliane, per poi trascorrere tre giorni in carcere.
Corradini, partiamo dall’inizio: perché ha deciso di salire sulla nave Conscience della Flotilla?
«Per la necessità di agire. Dopo due anni di tentativi istituzionali e diplomatici, il genocidio stava continuando e colleghi medici e operatori sanitari continuavano a essere uccisi. E il diritto alla salute non era garantito. Bisognava cercare un’altra strada, che partisse dalla società civile: portare cibo e farmaci e rompere il blocco illegale di Israele che impediva ai medici e agli infermieri di dare supporto alla Striscia, dove i diritti fondamentali non erano rispettati. Sono entrato in contatto con la Conscience perché avevo già lavorato a Gaza nel 2019, quando, da studente del sesto anno di Medicina, avevo fatto tirocinio negli ospedali e nei pronto soccorso durante le Marce del ritorno. Avevo quindi una rete di contatti che mi ha coinvolto in questo progetto. Non potevo tirarmi indietro».
Chi sono stati i suoi compagni di viaggio?
«C’era un gruppo di italiani piuttosto numeroso: infermieri e medici provenienti da varie parti d’Italia. In totale eravamo un centinaio di persone, di 25 nazionalità diverse: una spedizione che arrivava da tutto il mondo, dal Canada alla Nuova Zelanda, alla Malesia. Avevamo tonnellate di farmaci. Era una situazione in cui il mondo intero si stava mobilitando per dire basta a questo genocidio».
Poi l’8 ottobre scorso l’abbordaggio e l’arresto da parte delle forze israeliane. Com’è avvenuto?
«Un sequestro vero e proprio, un atto di pirateria. Eravamo in acque internazionali, disarmati, e stavamo portando aiuti umanitari. In meno di un giorno saremmo potuti arrivare a Gaza».
Come si è svolta l’operazione?
«Un’unità speciale dell’esercito israeliano ci ha assaltato con due elicotteri e una decina di mezzi marittimi. Hanno disattivato le nostre connessioni Internet, distrutto le telecamere, e sono saliti a bordo armati. Un assalto in piena regola. L’operazione è durata circa 12 ore. C’era grande preoccupazione per le persone anziane e fragili: a bordo c’erano anche ottantenni. Siamo stati costretti a restare chiusi in stanze piccole e caldissime, subendo una serie di soprusi. È importante sottolineare la follia di quello che abbiamo vissuto come operatori sanitari: se è successo questo a noi, immaginate cosa accade ogni giorno alla popolazione palestinese. Essere civili aggrediti, ammanettati e bendati da un esercito non è certo un’esperienza bella. Non lo auguro a nessuno. Ma abbiamo vissuto un’infinitesima parte di ciò che accade ogni giorno in Palestina, non solo alla popolazione civile, ma anche ai medici: ci sono decine e decine di colleghi arrestati negli ospedali e portati come ostaggi nelle carceri israeliane, di cui non si sa più nulla. Fino ad oggi sono stati uccisi oltre 1.700 operatori sanitari in Palestina – negli ospedali, nelle cliniche, nelle ambulanze – mentre prestavano aiuto, in barba all’articolo 9 della Convenzione di Ginevra, che riferisce che non c’è alcun motivo per attaccare il personale sanitario».
Poi vi hanno portato in carcere. Qual è stato il trattamento?
«Dopo 12 ore, appunto, siamo arrivati al porto di Ashdod. Prima c’è stata l’identificazione — più di un’ora in ginocchio, trascinati per terra, colpiti alla testa e alla schiena — poi il trasferimento in carcere, ammanettati e bendati, senza poter andare in bagno, bere o mangiare. Eravamo in otto in una cella sporca, con materassi luridi, senza cuscini, senza carta igienica, senza avere accesso all’acqua potabile. Siamo entrati subito in sciopero della fame per aiutare un nostro collega ad alto rischio infarto, a cui non veniva permesso di prendere i farmaci per il cuore. Ma non è servito a nulla: non gli importava proprio».
Avete subito violenze?
«Sì. Venivamo spinti, e durante la notte entravano tre o quattro volte in cella con l’equipaggio antisommossa per contarci e impedirci di dormire. Urlavano negli altoparlanti, ci sottoponevano a una serie di violenze psicologiche e fisiche. È stato pesante».
Ci sono stati contatti con le autorità italiane?
«Sì, abbiamo parlato con la console italiana».
Com’è stato pianificato il rientro?
«Non conosco tutti i dettagli diplomatici, ma c’è stata una forte mobilitazione da parte di vari Paesi. Uno sforzo comune per ottenere il nostro rilascio».
In aeroporto, a Torino, l’attendeva sua sorella. Cosa ha provato nel rivederla?
«Mi sono sentito un privilegiato. Sono potuto tornare a bere, mangiare e prendere farmaci se ne ho bisogno. A Gaza, invece, continua la carestia, la gente non può curarsi, chi ha il cancro non ha accesso alle terapie. E l’80% degli edifici è distrutto. Il cessate il fuoco è solo il primo passo, non è finita qua: questo è solo l’inizio di un processo che deve portare alla liberazione reale dei palestinesi dall’apartheid israeliana, riconosciuta da Amnesty international nel 2023. Solo così potremo avere la certezza che questo genocidio non accada più. Serve un processo che garantisca la giustizia per i crimini subiti, che porti al rilascio degli operatori sanitari, e che garantisca i diritti fondamentali. Fermare i bombardamenti non basta per fermare la violenza: il cessate il fuoco è solo l’inizio di un percorso che deve portare alla creazione dello Stato palestinese, l’unico modo per arrivare alla pace».
Ha mai pensato di lasciare la nave? La Global Sumud Flotilla era già stata fermata…
«In realtà no, non stavamo facendo nulla di sbagliato. Ero nella piena legalità. Ho fatto un giuramento quando sono diventato medico: difendere la vita. Non potevo voltarmi dall’altra parte»
Speravate di arrivare comunque a Gaza?
«Sì, assolutamente. La situazione politica internazionale stava cambiando di ora in ora».
E intanto le piazze, in Italia e in tutta Europa, si sono riempite al grido «Palestina libera». Vi hanno dato forza?
«Sì, tantissimo. La flotta di terra e quella di mare sono due tasselli di un meraviglioso mosaico: la società civile che dice basta. Ci vuole uno Stato di Palestina e ci vuole la pace. Questo lo hanno detto milioni di persone, da Roma a Trento: una coscienza collettiva che si è risvegliata per dire basta al genocidio».
Secondo lei, qual è stato il contributo della Flotilla?
«La Flotilla ha rappresentato una testimonianza diretta dell’opinione pubblica e della società civile nel dire che non bastava più ciò che era stato fatto fino ad allora. Chi ci rappresenta non è riuscito a far arrivare le nostre voci e le nostre istanze, e così la Flotilla è diventata lo strumento con cui le persone comuni hanno detto basta».
Avete ricevuto molti attacchi, anche dal governo, che vi ha definiti irresponsabili. Ve lo aspettavate?
«Io vi rispondo con una domanda: definireste irresponsabile un medico che vuole andare a curare un malato? Definireste irresponsabili persone che mettono a rischio la propria vita per portare cibo, latte in polvere e medicine ai neonati? Le piazze e le persone che si mobilitano sono uno stimolo per chi governa. Non voglio insegnare loro come fare il loro lavoro, ma non voglio neppure che mi spieghino come si fa il medico».
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