La storia
giovedì 2 Ottobre, 2025
Lucia Brunialti e il buio dell’anoressia: «Arrivai a pesare 38 chili. Inseguire la bellezza non c’entra, mi ammalai dopo la morte di mio zio»
di Simone Casciano
Bibliotecaria a Ledro, madre da 6 mesi di Alma, in un libro ha raccontato la sua esperienza. «Non sapevo come uscirne, ma a ragazze e ragazzi dico: si può guarire»

A volte da un dolore grande può nascere anche un dono per gli altri. È quello che ha fatto Lucia Brunialti, oggi a 29 anni bibliotecaria a Ledro, madre da 6 mesi di Alma, che quando aveva 16 anni ha sofferto di anoressia nervosa, una patologia che ha raccontato nel suo libro «Dieci pomodorini al giorno», una rielaborazione del diario che da adolescente ha tenuto di quel periodo, una bussola lasciata oggi a chi si trova ad affrontare quello stesso problema. Una patologia spesso interpretata male, «considerata legata a standard di bellezza, quasi come fosse un capriccio – racconta Lucia – E invece è una malattia legata a un profondo disagio, a un dolore che non si riesce a comunicare. Io non mangiavo perché mi sentivo piena, ma ciò che mi riempiva era un enorme vuoto». Mentre ci parla al telefono Lucia si prende cura di Alma, la sua bambina di 6 mesi, il suo miracolo perché «dopo quello che avevo fatto al mio corpo non ero sicura di poter avere bambini». Una maternità che ora la porta a guardare anche con occhi diversi a quello che ha passato.
Com’è iniziata la malattia?
«Mi sono ammalata a 16 anni, quando ho perso uno zio che per me era stato come un padre, dopo la morte del mio papà quando avevo 6 anni. È stata una tempesta emotiva che ha riportato a galla tutto il dolore del passato. Prima della malattia ero una bambina introversa, con difficoltà a esprimere le emozioni se non attraverso la creatività. Dopo, invece, ho imparato a comunicarle. In un certo senso devo dire che all’anoressia nervosa devo anche qualcosa: mi ha insegnato l’importanza di saper comunicare un disagio profondo. Ho scritto un libro che racconta il momento più difficile del mio percorso e il modo in cui mi alimentavo allora. L’ho fatto perché a volte è difficile capire cosa accade, perché molti lo nascondono o si rifiutano di affrontarlo. Il disagio si manifesta attraverso comportamenti alimentari scorretti: digiuno, episodi di bulimia, abbuffate improvvise, attività sportiva eccessiva».
Quali sono gli stereotipi attorno a questi disturbi, qual è invece la realtà?
«Lo stereotipo più diffuso è che si tratti di un capriccio o del desiderio di aderire a standard di bellezza imposti dai social. In realtà, i disturbi alimentari nascono da un disagio interiore profondo. Nel mio caso fu una perdita dolorosa, ma le cause possono essere molteplici. Quel vuoto, quella sofferenza che non si riesce a esprimere, spesso si manifesta così».
Quanto ha convissuto con la malattia?
«Persi rapidamente più di 30 chili. A giugno 2012 pesavo circa 38 chili e capii di essere al limite quando svenni. Era il 18 giugno 2012 e ho realizzato di aver bisogno di aiuto e ho contattato una clinica per iniziare un percorso. Ero consapevole della mia condizione, ma non sapevo come uscirne da sola».
Cosa comporta il perdere peso?
«A livello fisico significa una graduale autodistruzione. Ancora oggi convivo con una tiroide instabile a causa di quel periodo. A livello sociale si viene privati di molto: ci si isola, anche perché la nostra socialità è fortemente legata al cibo, e perché la priorità diventa sopravvivere. Io mi sentivo sempre “piena”, ma in realtà ciò che mi riempiva era un vuoto enorme. Trascorrevo molto tempo a casa, spesso da sola, leggendo o suonando, per non sprecare energie».
C’è qualche libro che l’ha aiutata in quel periodo?
«Ricordo benissimo il libro che stavo leggendo quando sono svenuta: “Trent’anni. Una chiacchierata con papà” di Tiziano Ferro. Un libro perfetto per un’adolescente».
Com’è iniziato il percorso di guarigione?
«La decisione è stata mia. Penso che i genitori cerchino aiuto per i figli, ma finché non è chi soffre a voler guarire, il percorso diventa vano e molto difficile. Serve una forte volontà. Se posso essere sincera, si guarisce, si diventa consapevoli, ma una ferita rimane sempre: una sensibilità particolare rispetto al tema dell’alimentazione. Anche oggi, a 13 anni dal mio periodo buio, porto dentro quella ferita, quel punto debole. Nei momenti difficili il rischio è di rifugiarsi ancora lì, anche se non fino ai livelli di malattia. È un po’ un tallone d’Achille».
Chi le è stato vicino, come si può aiutare chi soffre di questi disturbi?
«Ho visto che, soprattutto in adolescenza, molte amicizie si perdono: forse per paura, forse perché non sanno come comportarsi. A livello familiare era difficile: la frase tipica era “mangia”. Mia nonna, che aveva vissuto la guerra, non capiva il mio problema. Invece ho ricostruito il rapporto con mia mamma, che ha sofferto quanto e forse più di me nel vedermi spegnere davanti ai suoi occhi. Ora che sono mamma, lo capisco ancora meglio. Non sono mai stata ricoverata: in pochi mesi mi sono rimessa in piedi e ho iniziato un percorso ambulatoriale settimanale con nutrizionista e psicologa. Poco a poco sono riuscita a uscirne e a ricostruire un legame fortissimo con mia madre, che oggi è la persona che stimo di più».
Ha deciso di mettere la sua storia per iscritto, perché?
«Il libro è nato durante la malattia, come una sorta di diario. In seguito l’ho riassemblato, senza però volerlo snaturare: ho pensato fosse giusto restituire quel disagio così com’era. È un libro particolare, con testi di canzoni che scrivevo e pagine di diario. È molto chiaro nel restituire la mia condizione di allora. Ho impiegato molto tempo prima di decidermi a pubblicarlo, perché non è facile mettersi a nudo su temi così stigmatizzati. Ma nelle presentazioni dicevo sempre che è importante imparare a non giudicare: il giudizio amplifica il malessere. Sapere di essere stata d’aiuto mi ha resa felice, e spero di poterlo essere ancora».
C’è un messaggio che vuole mandare a chi in questo momento sta vivendo lo stesso problema?
«Non siete soli. Guarire si può. È difficile, il percorso è lungo e pieno di alti e bassi, ma si può tornare a vivere e stare bene. Questo 2025 me lo ha dimostrato davvero: non ero sicura di poter avere figli dopo tutto quello che avevo fatto al mio corpo, e invece è arrivata Alma».