L'intervista
lunedì 20 Novembre, 2023
di Davide Orsato
Il video, rigorosamente in bianco e nero delle previsioni del tempo dell’8 febbraio 1974 ha fatto, da solo, mezzo milione di visualizzazione su Youtube. È il tempo previsto per un normalissimo giorno d’inverno: c’è un afflusso di aria fredda dalla Scandinavia. Qualche gelata, ma prevalentemente sereno. Niente che passerà alla storia. Il colonnello Edmondo Bernacca, che a breve sarebbe diventato generale, mostra il barometro che fa bella mostra di sé nello studio Rai: «Vedete? La lancetta sensibile ha visto un notevole aumento di pressione: sono i venti da Nord Est. Da domani cieli più sgombri e gelate notturne». È la potenza dell’effetto nostalgia, certo. Ma anche l’apprezzamento, da parte non solo di chi, all’epoca, «c’era già», di un servizio pubblico che non esiste più. Quei pochi minuti serali che ti dicevano «il tempo che fa». Senza fronzoli, senza nomi luciferini per anticicloni «infuocati», senza «bombe d’acqua» e «sciabolate artiche». Ma con tante occasioni di imparare. La nona edizione del festival della meteorologia di Rovereto si è chiusa ieri con una serata «amarcord». Un momento, al teatro Zandonai, dedicato al primo volto italiano delle previsioni meteo in Tv. Quello di Edmondo Bernacca, per l’ appunto. «Quasi sereno, poco nuvoloso. La meteorologia del generale Edmondo Bernacca e qualche previsione sul futuro», questo il titolo scelto per l’appuntamento, ha visto la presenza del figlio del generale dell’aeronautica scomparso esattamente trent’anni fa, Paolo e della nipote Fulvia, fotografa, impegnata a lungo in un progetto di recupero del lavoro del nonno, sfociato nel libro «Sereno» (Forward, 2023).
Fulvia Bernacca, cosa significa parlare di suo nonno, del suo lavoro, del vecchio «Che tempo fa» oggi?
«Significa fare un viaggio nel tempo. Raccontare la sua vita, la sua passione, il suo lavoro. Non c’era una vera differenza tra tutte queste cose. Significa, anche, raccontare un modo diverso di comunicare una scienza come la meteorologia: mio nonno è stato il primo a mostrare le carte con le isobare in tv. Voleva che quei concetti fossero alla portata di tutti».
Il «colonnello Bernacca» condusse le sue ultime previsioni del tempo nel 1979, ma è ancora una figura di cui molti si ricordano. E lo fanno con affetto. Quali sono le ragioni?
«Le previsioni del tempo sulla Rai erano diventate un appuntamento fisso per tutti gli italiani. Mio nonno era uno di famiglia, non solo per me, ma per chiunque accendesse la tv. Ma credi che giochi anche il fatto che la televisione pubblica, a quel tempo, aveva un ruolo educativo e formativo. Forse si rimpiange anche questo».
Gli ultimi anni sono stati segnati dal «meteospettacolo», dalle app che pretendono di dire se pioverà fra quindici giorni, dalle previsioni urlate. Ma c’è stata anche una chiamata al rigore della comunità scientifica, e il festival di Rovereto né una testimonianza. C’è qualche speranza di tornare all’esempio che fu di suo nonno?
«Siamo ancora lontani. È un problema che non riguarda solo la meteorologia, ma il giornalismo e, in senso più ampio, la comunicazione. Si cerca il “clic” a tutti i costi. Si preferisce fare terrorismo mediatico invece di corretta informazione e di divulgazione».
Ora ci sono modelli matematici potentissimi. In passato si faceva molto più affidamento sull’esperienza. Eppure molti sono pronti ad affermare che le previsioni di Bernacca e dei colleghi dell’aeronautica che lo seguirono fossero più accurate…
«Più accurate? Non lo so. Sicuramente più oneste. Ho avuto occasione di leggere l’archivio di mio nonno: ogni giorno si segnava il tempo che effettivamente faceva. E questo anche per verificare se le sue previsioni fossero corrette o sbagliate. Se commetteva qualche errore poi chiedeva scusa al pubblico».
Com’era Edmondo Bernacca nel privato?
«Molto presente, anche se spesso impegnato. Quand’ero bambina era una celebrità: se n’era già andato in pensione, ma lo chiamavano per un’opinione. Lo vedevo andare nella stanza con il telefono e sentivo la sua voce in diretta in tv, mi pareva una magia».
Per lui la meteorologia era un lavoro, una passione o entrambe le cose?
«Le due cose erano inscindibili. Lo sa bene mio padre. Andavano in vacanza: si comprava il classico rullino con 36 foto. In metà c’erano le tipiche foto di famiglia. Nell’altra metà c’erano solo foto di cieli. Fotografava le nuvole. Le stesse che non smetteva mai di guardare, le stesse che aveva cominciato a scrutare da ragazzino e che gli avrebbero indicato la strada da seguire una volta diventato grande».