L'intervista

domenica 8 Ottobre, 2023

Marc Girardelli, fuoriclasse dello sci: «Le mie origini a Scurelle. Stenmark un idolo. Tomba? Un magnete»

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Cinque coppe del mondo e undici medaglie mondiali in bacheca, sabato sarà a Trento per il Festival dello sport

Segnatevela pure con un bel circoletto rosso la data di sabato 14 ottobre, quando alle 18.30 a Trento, in Sala Depero, il Festival dello Sport accoglierà una leggenda come Marc Girardelli; sessant’anni lo scorso luglio, cinque coppe del mondo e undici medaglie mondiali in bacheca, l’uomo dei record e il polivalente per antonomasia che tra gli anni ’80 e ’90 vinceva in tutte le discipline dello sci alpino. Un atleta esemplare, un campionissimo che tra un palo e l’altro sulla neve danzava come Nureyev, e un modello di serietà e correttezza che ha lasciato nella storia di questo sport il timbro della sua infinita classe.

Marc, suo nonno erano originario della Valsugana, per lei venire a Trento è po’ come tornare a casa, non crede?
«È la prima volta che vengo al Festival di Trento. C’è tutto il mondo dello sport, e sarà per me un grande onore essere lì. La famiglia Girardelli era di Scurelle: ci sono stato un paio di volte negli anni ’80 e ho ancora qualche contatto, ma anche la mia carriera è legata al Trentino: ho vinto tre volte il Trofeo Topolino sul Bondone e in coppa del mondo nel 1984 a Madonna di Campiglio ho colto la mia prima vittoria in supergigante. Campiglio è un posto davvero speciale».

Austriaco di nascita, lussemburghese di passaporto per i contrasti tra suo padre Helmut e la federazione austriaca; diciamo che correre per il Lussemburgo non le facilitò le cose…
«Per il doppio passaporto non potei partecipare ai mondiali del 1982 a Schladming e alle olimpiadi del 1984 a Sarajevo; ma il vero problema era il fatto che, non avendo una squadra, dovevo allenarmi da solo e, soprattutto, in discesa libera questo era un problema: le altre nazioni avevano in pista una quindicina di persone, noi eravamo in tre, io, mio padre e lo skiman. Non potevano aprire una stazione in ghiacciaio per un solo atleta, così allo Stelvio ci organizzavamo con le motoslitte e iniziavamo gli allenamenti la mattina molto presto prima che arrivassero tutti gli altri. Aggiungo che non poter avere una vita sociale mi faceva soffrire».

Lei passa alla storia come il grande polivalente; vinceva in tutte le discipline, anche in discesa, una volta a Kitzbühel e due volte a Wengen, i due templi della velocità.
«A me la velocità è sempre piaciuta sin da ragazzino. Fare punti in discesa era fondamentale per poter vincere la coppa del mondo, in quanto Pirmin Zurbriggen, allora il mio rivale numero uno, andava forte in tutte le discipline. Ho vinto le due discese più prestigiose, ho fatto tanti podi, segno che un po’ di talento per la discesa lo avevo, dai».

Cinque coppe del mondo, undici medaglie mondiali, quarantasei vittorie in coppa del mondo, cento podi. Scusi, e quante cicatrici?
«Tante (ride, ndr), ma se penso a tutti gli infortuni gravi che ho avuto, devo dire che sono stato fortunato a cavarmela così. Senza problemi, oggi vado a sciare e a correre, pedalo in bicicletta e faccio roccia: la mia fortuna è quella».

L’olimpiade l’unico alloro che le manca. È un rammarico?
«Nel 1992 al gigante di Albertville arrivai secondo dietro a Tomba. Ma avere davanti Alberto era come vincere eh! La cosa più bella della mia carriera, di cui peraltro sono felicissimo, non sono i trofei, ma le tante belle persone che ho potuto conoscere. Son passati tanti anni, e io e Alberto siamo legati da un’amicizia profonda. Sono molto felice di questo».

Lei ha incrociato tre tra i più grandi campioni nella storia dello sci alpino: cominciamo da Ingemar Stenmark.
«Un idolo, il più grande sciatore di sempre. Grazie al suo allenatore, il gardenese Hermann Nogler che conosceva bene mio padre, ci siamo anche allenati insieme in Senales e al Tonale. Ingemar è anche stato a casa mia in Austria. Molto timido e di poche parole, ho provato a scioglierlo con un bicchiere di vino, ma niente da fare. Ho conosciuto anche il grande Edwin Moses, fuoriclasse dell’atletica; anche lui parlava poco, ma un paio di bicchieri di vino rosso con lui hanno funzionato: iniziò a parlare e non si fermava più».

Pirmin Zurbriggen?
«Viene da un paesino del Vallese in Svizzera, dove la gente è piuttosto chiusa, la domenica va a messa e poi se ne sta a casa. Lui era un po’ così, ma anche molto intelligente. Sapeva sempre quale fosse la cosa giusta da fare per la sua carriera. Viveva nell’ambiente della squadra e questo lo ha aiutato a trovare e mantenere alta la concentrazione per tanti anni. Era il mio rivale più forte».

Arriviamo ad Alberto Tomba.
«Un altro mondo, estroverso e apertissimo. Aveva la stessa capacità di attrazione di un magnete: entrava in ristorante ed era subito il re. Un grande personaggio che ha portato lo sci a una popolarità mai vista prima. Tutto il mondo, non solo l’Italia, guardava le gare di sci per vedere Alberto Tomba. Anch’io ero un suo fan, ogni tanto magari lo battevo, ma lui era il più forte».

Marco Odermatt vince oggi in tre discipline su quattro: le assomiglia?
«È meno polivalente di me e Zurbriggen. É talmente forte in gigante, superG e discesa che non gli servono i punti dello slalom. Credo che avrebbe potuto battere anche Hirscher; ha fatto duemila punti, un’enormità. E nemmeno Hirscher, che ha dominato la scena per dieci anni, li ha mai fatti. Sicuramente sarebbe stato un gran rivale».

Mikaela Shiffrin?
«Fantastica, come lo era Annemarie Moser-Proell negli anni ’70».

Di cosa ha bisogno lo sci per tornare alla popolarità di trent’anni fa?
«Forse di un altro Alberto Tomba…(altra risata, ndr)? Diciamo che i tempi son cambiati, in tv oggi c’è una proposta di sport enorme, molto più ampia che in passato. Ci sta che lo sci sia seguito un po’ meno. Servono nuove idee, ma non è facile».

Lei di cosa si occupa oggi?
«Sono sposato con Laurence, (Rochat, fondista svizzera bronzo ai giochi di Salt Lake City nel 2002, ndr) e da oltre quindici anni ho una ditta di abbigliamento da sci per scuole sci, ski club e stazioni sciistiche. Siamo forti in Svizzera e in Austria, siamo presenti in Germania e nei Balcani; in Italia forniamo lo staff di Madonna di Campiglio. Siamo molto contenti e speriamo di crescere ancora. In Liechtenstein, dove vivo, lavoro inoltre anche per un’azienda di apparecchi elettromedicali che in Italia ha sede proprio a Trento».

Il surriscaldamento morde il pianeta; che futuro può avere secondo lei lo sci?
«La terra ha già vissuto fasi di surriscaldamento, questo non è il primo e non credo che tutto ciò a cui assistiamo sia causato dall’uomo. È vero che c’è meno neve di una volta, ma è pur vero che grazie alle avanzate tecnologie di innevamento la stagione sciistica inizia oggi già a novembre e che la coppa del mondo parte tra un paio di settimane. Senza lo sci, che fa grandi numeri, il turismo invernale in montagna quasi non esisterebbe, con danni enormi all’economia alpina. Lo sci deve però svilupparsi anche in altri mercati, in Asia e in Cina soprattutto, dove stanno nascendo nuove stazioni».

Grazie Marc.
«Grazie a voi, ci vediamo sabato prossimo a Trento».