Cultura

martedì 3 Gennaio, 2023

L’artista trentina, Annamaria Gelmi, in mostra a Venezia: «Cinquant’anni di lavoro. Ho selezionato 30 opere rilevanti»

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La personale dell’artista trentina alla fondazione Marchesani segna il percorso che ha seguito dagli anni Settanta a oggi

È stata una vera sfida: curare una mostra sul proprio lavoro, un lavoro che, dagli anni Settanta a oggi, l’ha posta alla ribalta del mondo internazionale dell’arte. L’idea che ha coinvolto l’artista trentina Annamaria Gelmi è stata di Clarenza Catullo, consulente per l’Arte e organizzatrice delle esposizioni della Fondazione Giorgio e Armanda Marchesani di Venezia, nel cui palazzetto in Fondamenta Rossa è possibile visitare fino al prossimo 8 gennaio AMG. Ed è proprio in queste tre lettere che è racchiuso il cuore della ricca produzione di Annamaria Gelmi secondo Annamaria Gelmi. «Ho avuto la possibilità – ci spiega l’artista – di decidere io stessa cosa esporre, in quali ambienti e in che modo. Ho selezionato una trentina di mie opere, quelle che più si legano le une alle altre, per fare una panoramica su più di cinquant’anni di lavoro. L’impegno è stato notevole, ma sono riuscita, in linea con il mio minimalismo di base, a segnare il percorso che ho seguito dagli anni Settanta fino ai nostri giorni, avendo come filo conduttore il dialogo delle opere con lo spazio che le ospita». I lavori esposti, dunque, pur se legati a momenti di produzione diversi, costituiscono nel loro insieme un’ulteriore opera, a sé stante.
Diplomatasi all’istituto d’arte «Alessandro Vittoria» di Trento, Annamaria Gelmi nel 1961 frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano per concludere i suoi studi, cinque anni dopo, all’Accademia di Venezia. Impegnata nel sociale contro ogni discriminazione sessuale e razziale (erano gli anni della contestazione studentesca, della guerra in Vietnam), a partire dalla personale del 1970 alla Galleria Mirana di Trento inizia un percorso che la condurrà gradualmente all’assoluta semplificazione delle forme, tramite il linguaggio universale della geometria. La fedeltà dell’artista a questo principio, reso negli anni Settanta soprattutto col plexiglass e poi con mezzi diversi (dal collage con carta di seta giapponese, all’acetato, all’acciaio), è evidente anche quando i suoi lavori sono tridimensionali per il prevalere di una progettualità architettonica sottolineata dalla rara presenza del colore a vantaggio di un uso pressoché esclusivo del bianco e del nero. Eppure, il codice linguistico di Annamaria Gelmi è come se avesse perso solo apparentemente i riferimenti a una figuratività collegabile alla realtà visibile, giacché è espressione di una realtà altra, «ideale», «platonica», fatta di rapporti armonici di ritmo e numeri, che restituisce la struttura primaria delle cose. Le sue sono costruzioni sia sensibili che mentali e richiedono la partecipazione attiva di un osservatore chiamato a indagare un qualcosa di nuovo incluso entro dei confini, quelli che caratterizzano, per esempio, Sequenze, sedici collage di forme in bianco e nero che superano la loro isolata staticità per l’anelito a un incontro e a un’integrazione reciproca tutta concettuale.
«Sono soprattutto le strutture in ferro, – spiega Annamaria Gelmi – come la gabbia illuminata da un led rosso esposta in mostra, che con la loro presenza fisica delimitano lo spazio e rappresentano la nostra incapacità di poter uscire da una determinata situazione». Le linee nette delle sue opere tracciano certamente dei limiti, anche psicologici, ma sembrano piuttosto diventare inclusive quando abbracciano, per esempio, altre forme d’arte, la poesia dei tre haiku che ha composto in inglese per lei Andrea Zanzotto e che l’artista ha riportato su pannelli di plexiglass illuminati da una luce a led inserita entro una spessa cornice di acciaio. Oppure nei giochi di pieni e vuoti dell’installazione in acciaio verniciato Inarchitettura, del 2010, sintesi del percorso di Annamaria Gelmi: un arco è composto da moduli tratti dal suo universo formale in una combinazione che ha destrutturato i labirinti che l’artista realizzava negli anni Novanta. Non più luoghi enigmatici da cui è quasi impossibile uscire, ma linee (il filo di Arianna?) come chiave di interpretazione del mondo.