Cinema

mercoledì 26 Ottobre, 2022

Torna «Falegnami ad alta quota». Katia Bernardi sul set della seconda stagione: in futuro? L’uscita in inglese delle «Funne»

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La regista si racconta, dal cinema alle serie tv con umanità e ironia. In cantiere il bis della serie di successo di Dmax. Ma molti altri progetti sono in costruzione

Nata nel 1973 a Trento, Katia Bernardi è una di quelle registe che, del territorio, ne ha fatto il perno centrale della sua carriera, pur muovendosi costantemente da un set all’altro, pur oscillando periodicamente – in un percorso che lei stessa definisce pop – tra pubblicità, serie televisive e cinema. L’incontro, che scaturisce da un confronto sulla sua serie di successo su Dmax, «Falegnami ad alta quota», diventa allora un pretesto per parlare con lei di maestri, di cinema, di sogni.

Partiamo dalla serie «Falegnami ad alta quota», in cui raccontava nella prima stagione le vicissitudini della famiglia Curzel di Caldonazzo, una famiglia di costruttori, specializzata appunto in cantieri montani, spesso in condizioni estreme. Com’è andata? Ce ne sarà una seconda stagione?

«È andata molto bene. Abbiamo raggiunto i 4 milioni di spettatori tra la premiére del mercoledì e la replica domenicale, il che ci ha permesso di parlare fin da subito di un proseguimento. Quest’estate dunque abbiamo iniziato a girare i primi tre episodi della nuova stagione, a cui si sommeranno altre tre puntate autunnali e invernali. La seconda stagione vedrà un bello sviluppo delle storie: ci saranno delle evoluzioni nei personaggi già noti e delle introduzioni di nuove figure, quali la capitana Anna Piazzi del sesto reggimento alpini di Brunico e l’esperto rocciatore Fabio Bortol. Nuove prove porteranno i Curzel a superare i loro limiti, come il lavoro sul Monte Cristallo per il restauro del bivacco Buffa Perrero, un luogo incastonato nella roccia a tremila metri, e il rifugio Capanna Fassa. Le puntate usciranno su Dmax nella prossima primavera».

Ma oltre alla tv, da sempre si dedica anche al cinema (l’ultimo film, «Inedita», un ritratto di Susanna Tamaro, risale al 2021). A cosa sta lavorando?

«Da sempre amo misurarmi con generi, formati e prodotti diversi. Sono una donna curiosa, perennemente alla ricerca. Questo fa sì che spesso – e anche ora – lavori a più storie in contemporanea. In particolare al momento mi sto dedicando alla scrittura di alcuni prodotti fiction, tutti però fondati su fatti reali. Dovendo citarne due a cui sono particolarmente affezionata, potrei parlare di “Lost in Gurro”, una sorta di “armata Brancaleone” tra il Piemonte e la Scozia, oppure l’adattamento inglese del mio primo film, “Funne – Le ragazze che sognavano il mare”».

Lei stessa si definisce onnivora in campo cinematografico. Ma c’è un fil rouge nei suoi lavori?

«Sì, credo siano due: da un lato l’approfondimento dei personaggi, che cerco di portare anche quando filmo l’azione pura dei falegnami in condizioni estreme; dall’altro, certamente, l’ironia».

E ama anche guardarla, la commedia? Quali sono i suoi film preferiti e quali i suoi maestri?

«Certamente. Amo molto le commedie inglesi, quelle storie in cui di base i protagonisti vivono condizioni di sfortuna ma con ironia e bizzarria risollevano le proprie vite. Penso ad esempio a “Billy Elliot” di Stephen Daldry o “Full Monty” di Peter Cattaneo. Non disdegno nemmeno le commedie romantiche, come “Chocolat” di Lasse Hallström, che dà il nome alla mia ditta, ma anche, ancora, la saga di “James Bond”, o i film di Quentin Tarantino. Ecco, se dovessi individuare dei maestri, sarebbero probabilmente Billy Wilder per l’uso del comico e Tarantino per la commistione dei generi».

Da dove nasce questo suo amore per il cinema, però?

«Da mio padre, Sergio, che è sempre stato un uomo di cultura, innamorato delle arti e che mi ha fatta crescere tra i teatri di piazza, la musica, l’arte… Il cinema in qualche modo a un certo punto ha rappresentato la naturale unione di tutti questi amori che lui mi aveva trasmesso. Di conseguenza scelsi di laurearmi al Dams a Bologna, dove la mia tesi fu un backstage di un film di Daniele Luchetti, grazie alla quale vinsi anche una telecamera. Dopo gli studi, quindi, divenni camera girl, per poi seguire un percorso di promozione culturale e artistica nel territorio altoatesino, e poi ancora di documentazione sociale e del mondo del lavoro in quello trentino».

E oggi che, possiamo dire, «fa altro», quali sono i legami con il Trentino?

«In Trentino vivo, c’è la mia azienda, ma insegno anche scrittura creativa e regia. Una cosa che non in molti sanno poi è che, anni fa, sono stata la fondatrice di “Trentino Casting”. Insomma, lavoro e terra di origine sono per me strettamente interconnessi. Del resto, qui spesso si sono sviluppate le storie che ho scelto di raccontare (come “Funne”) e, credo, si svilupperanno anche quelle future».