la testimonianza
venerdì 4 Novembre, 2022
di Benedetta Centin
Doveva essere un sabato sera con le amiche universitarie alla scoperta di quel quartiere della movida, con locali internazionali, inserito nella lista dei luoghi di Seul da visitare ancora prima di fare le valigie a Trento. Una nottata di festa, di Halloween, dove le mascherine covid avevano finalmente lasciato il posto a costumi e travestimenti. In strada e nei club. Ma l’atmosfera da incubo che doveva essere solo divertimento e suggestione è diventata terribilmente reale. Come la paura di non riuscire a sopravvivere. E quella frase — «oggi moriamo» — ripetuta ossessivamente in testa, si è rivelata l’input per scappare dalla calca trasformata in una pericolosa morsa. Un mattatoio. Una sensazione che ancora permane per Anna, 21enne di Trento iscritta alla facoltà di Lingue e Civiltà orientali di Venezia, da fine agosto all’università femminile di Seul.
Anna, cosa è a successo il 29 ottobre?
«Con tre amiche universitarie italiane, una di Trento, e altre tre francesi, siamo andate nel quartiere di Itaewon, percorso da due strade strette, in salita e discesa e a “u”, e con diversi locali. Avevamo programmato di esserci per le 19 ma per diversi motivi abbiamo tardato e siamo arrivate per le 22.30, come risulta dalle foto scattate. E meno male che non abbiamo rispettato l’orario».
Perché allora?
«Non eravamo ancora arrivate nella strada dei club, nel punto dove sono morte le persone schiacciate dal muro umano. Un bilancio finora arrivato a 156 vittime. Eravamo comunque a pochi metri di distanza».
Cos’è successo?
«Qualcuno ha urlato di spingere e tornare indietro e noi ci siamo trovate in mezzo alla calca, tra due masse che urtavano, da entrambe le parti, in direzioni opposte. C’era chi spingeva con forza, anche usando i pugni, per riuscire a salire sulla strada in discesa. Chi pressava per scendere. Noi eravamo in mezzo. Ci stavano letteralmente schiacciando. La mia amica, claustrofobica, ha avuto un attacco di panico e io, che non sono alta, ho sollevato il viso compresso da chi mi stava vicino. Cercavo aria. Dovevo respirare».
Vi siete rese conto di quello che stava accadendo a pochi metri da voi?
«Lo abbiamo saputo poi, dalle notizie pubblicate online sui media coreani, quello che era successo sull’altra strada che si congiungeva alla nostra. Di come si fosse creato un muro di persone, ammassate, che sono cadute una sopra l’altra e che sono morte. Sul posto, durante il trasporto o in ospedale. Eravamo sotto choc e ancora ora siamo sconvolte e capita di parlarne tra di noi e piangere».
Avete rischiato di essere travolte dalla gente?
«Mi è successo, sì. Ma io sono fortunata e sono qui a raccontarlo. Spinta da più parti stavo per cadere a faccia in giù ma un ragazzo sconosciuto che mi era dietro e che vorrei tanto ringraziare mi ha preso in tempo e lo ha evitato. Stava cadendo a sua volta e mi ha cinto un braccio sull’addome per salvarmi. Finita sull’asfalto mi avrebbero schiacciato e non so se..»
Era uno scenario apocalittico?
«Sì. C’era chi spingeva, chi tirava pugni per farsi spazio, chi urlava “aiutatemi”, chi piangeva. Mi ha sconvolto il fatto che le persone che si trovavano nel club davanti a noi ci guardassero senza fare nulla. Abbiamo incrociato i loro sguardi ma forse, in balia dell’alcol e della musica, non hanno realizzato. E a chi cercava di scavalcare per entrare nel locale, in cerca di salvezza, veniva detto che non poteva entrare e doveva pagare. Ricordo poi la gente che dalle finestre lanciava acqua sulla gente ammassata per tenerla sveglia ed evitare che svenisse. E ancora i telefoni impossibili da usare perché non c’era rete».
Come siete riuscite a mettervi in salvo?
«Ho avuto la lucidità di allertare le mie amiche in modo tempestivo. “E’ troppo pericoloso” avevo detto loro pensando “oggi moriamo”, non sapendo ancora che poco più avanti c’erano persone che morivano davvero. Le ho spronate, così abbiamo tentato di uscire dalla calca. Subito. E grazie all’effetto domino siamo sgusciate via».
Come siete arrivate al campus?
«Tutti correvano verso la metro ed è stato impossibile prenderla a quella stazione, dove ci siamo ritrovate tra noi nonostante i telefoni fuori uso. Così abbiamo camminato fino a quella successiva».
Cosa non ha funzionato quella sera?
«Non c’erano abbastanza poliziotti nonostante le tantissime persone che si poteva prevedere arrivassero. Ci saranno stati una dozzina di agenti, arrivati poi a 150. Per 100mila persone. Troppi pochi».
È rimasta ferita?
«Ho subito uno schiacciamento come diagnosticato dal medico del campus. Altre ragazze hanno perso la sensibilità alle gambe. Mi ritengo fortunata, lo ribadisco. Avrò solo bisogno di tempo per superare dal punto di vista emotivo e psicologico quanto accaduto. A cui penso spesso. Già ho rifiutato di prendere la metro e con le amiche abbiamo abolito l’idea di possibili feste di capodanno. Non auguro davvero a nessuno l’esperienza che ho vissuto».
Il fatto
di Redazione
L'alpinista scomparve insieme a George Mallory mentre per primi cercavano di raggiungere la cima dell'Everest nel 1924: il ritrovamento potrebbe risolvere uno dei più grandi misteri dell'alpinismo