Ambiente

lunedì 19 Dicembre, 2022

Stambecchi, il futuro delle antiche capre delle Alpi

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Il Muse in un convegno apre all’ipotesi della reintroduzione sul Brenta dell’ungulato. Mustoni (Parco Adamello): «Soluzione che legherebbe con coerenza il passato del Parco al futuro»

In questa stagione gli stambecchi vivono in condizioni estreme, grazie all’adattamento evolutivo, che permette loro di resistere in alta quota, al gelo. Nel mondo umano, intanto, si ipotizza di riportarne una popolazione nel massiccio del Brenta, nel Parco naturale Adamello-Brenta. Di tale ipotesi si è parlato al Muse, a fine novembre, in un convegno organizzato dal Parco e voluto dal presidente dell’ente Walter Ferrazza.
Lo stambecco è tornato nel territorio del Parco trent’anni fa, con un progetto di reintroduzione realizzato e promosso dall’ente fra 1995 e 2000, tra val San Valentino e val di Genova, nei massicci dell’Adamello e della Presanella. Dopo la fine della fase più intensa del progetto sull’orso, il Parco è tornato a occuparsi di stambecco, a partire dal 2004/2005. Dal 2008 la popolazione del Parco è monitorata con metodologie naturalistiche. Oggi la stima dello zoologo Andrea Mustoni, responsabile scientifico del Pnab, è che vi siano 300/400 stambecchi.
Per ora c’è poco di concreto in merito alla possibile reintroduzione nel Brenta, manca uno studio di fattibilità ma il seminario organizzato al Muse, ha il merito di riportarci a parlare di una specie iconica, che ha perso visibilità negli anni recenti, a favore di un’ampia attenzione dedicata ad orsi e lupi. Si vedrà se si troveranno i soldi e la volontà politica per l’operazione-stambecco in Brenta. Intanto si avvia il dibattito, perché si tratta di una specie importante ed emblematica per le conseguenze del cambiamento climatico: questi ungulati avranno parecchie difficoltà con un ambiente in forte mutazione e temperature in rialzo.
Gli stambecchi sono infatti «relitti glaciali», come li chiama la scienza: con il ritiro dei ghiacci, queste affascinanti capre selvatiche, rimasero isolate sui grandi massicci alpini. Durante le ultime glaciazioni la loro storia si è intrecciata con quella degli antichi abitanti delle Alpi. In epoche recenti li avevamo quasi fatti estinguere sulle Alpi italiane. Negli anni Venti dell’ Ottocento rimanevano pochi capi nelle valli impervie di Piemonte e Valle d’Aosta. Poi siamo rinsaviti (in parte) e la specie, grazie ad una minoranza lungimirante, è stata salvata nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, confermando ancora una volta l’importanza cruciale delle aree protette. Quindi ci fu, come dicevamo, il ritorno anche in Trentino, grazie al Parco.
L’ipotesi reintroduzione ci induce a puntare i riflettori su una specie che, oltre l’ ontologica importanza come tassello della biodiversità, ha un paio di meriti, nella storia della conservazione.
«Attorno alla figura dello stambecco si è costruito quell’apparato formale che ha portato a una certa razionalizzazione delle risorse a disposizione in campo faunistico, e a dare dignità a una professione fino ad allora basata spesso sull’improvvisazione. Grazie allo stambecco sono state scritte pagine importanti dei libri di testo sulla conservazione, una disciplina che per crescere ha avuto bisogno di farsi le ossa sul campo» Sono parole di Andrea Mustoni, pubblicate sul sito dell’Istituto Oikos, che nel logo ha proprio Capra Ibex.
Al seminario al Muse la biologa della Provincia Natalia Bragalanti, ha detto che il Servizio Faunistico della Provincia intende dedicare una nuova scheda tecnica alla specie, nel prossimo Piano Faunistico.
Al seminario sono intervenuti rappresentanti del Parco Nazionale dello Stelvio trentino, del Parco Naturale di Paneveggio-Pale di San Martino (dove un’analoga esperienza ha portato ad avere oggi un centinaio di stambecchi), del Servizio faunistico della Provincia di Trento, Lav, Federparchi, Unzca, Safari Club .
Oltre alle questioni tecniche, si è trattato il tema «coniugare approccio scientifico ed etico». Andrea Mustoni ha riconosciuto che catture e spostamenti di animali comportano manipolazione e rischi di sofferenza e quindi responsabilità e necessità di consapevolezza. «E’ necessario operare nel modo più rispettoso possibile, anche negli anni successivi al rilascio» ha concluso.
Nel confronto, oltre alla relazione di Uncza (Unione Cacciatori Zona Alpi) sul ruolo del mondo venatorio, ha trovato spazio la sensibilità degli animalisti. Massimo Vitturi, della Lav, ha detto «Parliamo di soggetti con una loro individualità, da rispettare. Noi proponiamo un altro approccio: anziché spostare gli stambecchi, creiamo corridoi ecologici che permettano loro di spostarsi in nuovi territori». Gli zoologi sottolineano però che lo stambecco ha scarsissime capacità di colonizzare territori limitrofi, soprattutto se separati da valichi di bassa quota come Campo Carlo Magno, che divide i massicci della Presanella e del Brenta.
Concludiamo con la riflessione che Mustoni ha riservato a Il T «L’eventuale reintroduzione dello stambecco sulle Dolomiti di Brenta legherebbe il passato del Parco a un futuro aderente ai propri fini istituzionali. Inoltre lo stambecco porta con sé significati profondi capaci di ricondurci all’idea che la fauna, e quindi la natura, vada tutelata perché è giusto farlo in valore assoluto e, se vogliamo essere anche un poco “egoisti”, per il benessere immediato e futuro della nostra specie. lo stambecco è anche l’ambasciatore di una natura meditativa, capace di fare da contraltare ad orsi e lupi che, pur nella loro magnificenza, portano le persone ad un approccio differente. Forse l’appeal degli ambienti naturali del trentino potrebbe essere accentuato in modo virtuoso e corretto, se riuscissimo a mettere sullo stesso logo un orso e uno stambecco, testimoni di aspetti diversi e veri della natura. Chissà, magari mi permetterò di suggerirlo al Parco naturale Adamello Brenta che tanto si è speso in questi decenni per entrambe le specie»