festival dell'economia

lunedì 22 Maggio, 2023

Saskia Sassen e «le città palcoscenico delle nuove disuguaglianze»

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La sociologa tratta il tema delle trasformazioni urbane: «I grattacieli emblema della società duale. Serve uno spazio aperto a diverse condizioni»

Le città sono il teatro della nostra società. Sul suo palco vengono messe in mostra le criticità e i pregi. Occasioni di riscatto e dolorose discese agli inferi ne calcano il palcoscenico. Le città racchiudono, nei loro quartieri e nelle loro periferie, le pulsioni e le dinamiche che attraversano i nostri sistemi economici e sociali. Ne è convinta Saskia Sassen, sociologa autrice di molti libri sui temi del capitalismo e delle metropoli, tra gli ospiti più importanti della prima giornata del festival dell’Economia. La professoressa della Columbia University sarà ospite dell’evento «Democrazie sotto stress: diseguaglianze, identità e populismi», durante il quale dialogherà con un corposo panel di esperti.
Professoressa Sassen nel suo lavoro lei si è soffermata molto sul tema delle città globali. Come si applica secondo lei questo concetto alle città più piccole delle grandi metropoli? Gli agglomerati urbani di 100 o 200 mila abitanti stanno andando nella loro stessa direzione o stanno rimanendo indietro?
«Va specificato che nelle nostre società la maggior parte delle città sono piccole città, città in cui i residenti tendono a conoscere il proprio quartiere, città che esistono da molto tempo. Un cambiamento importante nel periodo attuale, almeno negli Stati Uniti, è la crescita anche qui di grattacieli, un fenomeno architettonico, ma anche sociologico. Sono spesso complessi, alti, progettati in modo da indurci a guardarli, ad ammirarne l’altezza (o a detestarne l’altezza), le loro pareti spesso trasparenti – in modo da poter stare lì ad ammirare i materiali, le forme, l’eleganza, l’altezza, le dimensioni a volte visivamente grandiose degli edifici. Ma questi edifici comunicano anche la crescita delle disuguaglianze nella nostra società».
Il fenomeno di AirBnb in questo contesto ha avuto un effetto dirompente sul mercato immobiliare e sulla vivibilità dei centri urbani, quali riflessi potrebbe avere sulla salute del tessuto urbano?
«Penso che sia una medaglia con due facce. Può essere positivo per alcuni e non altrettanto per altri. È anche una questione di tempo: non ne è passato abbastanza per sapere se ha funzionato bene o male. Di certo siamo davanti a grandi possibilità. Questa varietà di opzioni può portarci a commettere degli errori, oppure a ottenere ciò che abbiamo sempre desiderato».
Negli ultimi 70 anni abbiamo assistito a un progressivo svuotamento delle periferie e della provincia a favore delle città, è un processo destinato a continuare inesorabilmente? E qual è la sua valutazione del fenomeno?
«Assolutamente, la domanda è se questo massiccio spostamento verso le città abbia anche generato la necessità di tornare in periferia. Le periferie sono spesso più economiche da vivere, spazi in cui è più facile ottenere un appartamento o una casa, e migliori per le famiglie con bambini piccoli».
Come rivedrebbe il suo concetto di città globale al momento? C’è una differenza tra le città globali del mondo occidentale e quelle degli altri continenti?
«Nelle città siamo testimoni dell’enorme crescita sia del lusso che della povertà. Non è una novità, ma ciò che è allarmante è la rapida crescita di ciascuno di questi estremi. Nessuna città è perfetta, ma alcune sono caratterizzate da estremi sempre più drastici, sia per quanto riguarda i ricchi, sia per quanto riguarda i poveri. Per molti versi questa dualità è cresciuta e continua a crescere in modo allarmante. Dobbiamo trovare il modo di contrastare questo sviluppo di condizioni estreme: città fatte di residenti ricchissimi, di senzatetto poverissimi e nel mezzo un ceto medio sottopagato e perennemente al lavoro. Non sarà mai perfetto, ma non possiamo semplicemente lasciare che chi ha potere cresca in ricchezza e che i poveri perdano sempre di più».
Come vede il capitalismo attuale alla luce delle crisi sempre più gravi? Alcuni dei suoi modelli che stanno per decadere? Ce ne sono altri che le sembrano in ascesa? In generale, il modello capitalistico rimarrà quello prevalente nelle nostre società?
«La mia sensazione è che in questo momento non si possono fare previsioni, anche perché stiamo vivendo una sorta di vasta trasformazione, davanti a noi vedo molte possibilità a volte piccole ma presenti. Il nostro presente è segnato da cambiamenti e spesso siamo sorpresi da alcuni di questi, alcuni ci piacciono, altri meno. A questo si aggiunge un sistema del lavoro in cui le persone devono lavorare sempre più a lungo e sono sempre più stanche, non dormono mai abbastanza. Questo può portarci a rimanere con il vecchio e il familiare piuttosto che essere interessati o avere l’energia per esplorare nuove opzioni».
È preoccupata dei cambiamenti nelle abitudini lavorative e di come oggi si tenda a lavorare molte più ore? Come influisce questo sulla vita delle persone? Sulla loro capacità di impegnarsi in altre cose oltre al lavoro, penso alla famiglia, ma anche alla politica o al volontariato?
«Sì, è uno sviluppo allarmante, è evidente che la connessione sempre più stretta tra tempo-lavoro e tempo-vita sia totalmente a discapito della seconda. Questo richiede sacrifici che spesso vanno a colpire la sfera famigliare ma anche quella dell’attivismo e della politica. Contemporaneamente questo scenario è anche segnato dall’ascesa di attori potenti che ora si sentono liberi di impegnarsi in ogni tipo di opzione».
Per i migranti e i rifugiati che riescono a entrare nei confini dei paesi occidentali, le città rimangono sempre il principale punto di arrivo. Possono essere luoghi di riscatto? C’è un futuro per loro anche nelle periferie?
«Una città, una vera città, è un tipo di spazio aperto a diverse condizioni. I rifugiati che fuggono dai pericoli dei loro Paesi o dalle loro brutali leadership sono riconosciuti come meritevoli di protezione e qui devono avere un’occasione di riscatto. Dovremmo ricordarci che non è affatto facile per loro fuggire, lasciandosi alle spalle gli anziani genitori che non riescono ad affrontare il viaggio, i figli appena nati e affamati che rischierebbero di non sopravvivere e molto altro ancora».
Allo scoppio della guerra in Ucraina, abbiamo visto con quale solidarietà i Paesi europei hanno accolto i rifugiati. Secondo lei, perché non accogliamo tutti allo stesso modo?
«I motivi possono essere molti e diversi. Un aspetto che è abbastanza evidente secondo me è che tendiamo a favorire la familiarità. Gli ucraini sono legati ai Paesi occidentali sia dalla presenza di parenti già nei paesi di accoglienza sia dalla convinzione che ci sia una familiarità culturale maggiore. Questo ha influito sicuramente».