A Trento fra una settimana

domenica 12 Maggio, 2024

Omar Pedrini, sette operazioni e l’ottava in arrivo, nella tournée finale: «Sono un miracolato. Tutto cominciò alle nozze di Molina di Ledro»

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L'ex leader dei Timoria e i conti con il «cuore malandrino». L'appuntamento al Festival dell'Economia

«Sono un miracolato. Ho subito sette interventi al cuore, tre in appena 15 giorni nel 2022. A fine anno mi sottoporrò all’ottavo, questa volta però non cardio-vascolare: devo sistemare un problema collaterale nato con le ultime operazioni. È un piccolo record europeo di cui non vado fiero».

Sorride a denti stretti Omar Pedrini, 56 anni, bresciano, poliedrico artista: musicista, rocker, cantautore, scrittore, a lungo docente universitario in Cattolica, autore televisivo. L’ex leader dei Timoriache sarà a Trento il 26 maggio al Festival dell’Economia ospite del forum «Etica ed economia del business musicale. La strada cooperativa» – ha annunciato che il prossimo «Goodbye rock and roll tour» (che il 28 luglio approda a Molina di Ledro) sarà il suo ultimo con la band, poi si ritirerà nella sua tenuta agricola in toscana, sulle colline senesi, a produrre vino e olio: «I cardiologi mi hanno intimato: basta concerti rock, il mio cuore malandrino potrebbe non reggere. Ma voglio rassicurare i fan e chiarire un equivoco: dico addio all’Omar selvaggio e scatenato, ma non mi ritiro dalle scene. Tra un anno o un anno e mezzo, medici permettendo, conto di potermi dedicare al teatro-canzone, che già sto portando in giro con l’attore Alessio Boni e che in passato ho sperimentato con successo con Lawrence Ferlinghetti (padre della Beat Generation, ndr). Un genere che amo» dice Pedrini, 19 album all’attivo, nove con i Timoria e dieci da solista.

Un genere anche meno stressante per il suo cuore…
«In ogni live con la rock band perdo un chilo e mezzo. Poi ceno alle tre del mattino e vado a letto alle cinque. Uno stile di vita che non posso più permettermi, nonostante rimanga sobrio e mi conceda appena un bicchiere, senza quindi gli stravizi dei tempi dei Timoria».

La prima band di alternative-rock che diventò mainstream senza snaturarsi. Siamo nei primi anni ‘90…
«Andammo a Sanremo nel 1991. Vincemmo il disco d’oro nel 1993 con “Viaggio senza vento”, i primi a riuscirci della scena indipendente. Riempivamo i palazzetti. Eravamo nati nella seconda metà degli anni ‘80 sui banchi del liceo a Brescia».

Lei leader, compositore e paroliere, Francesco Renga cantante. I Timoria ruppero gli schemi…
«Innanzitutto, la scelta di scrivere e cantare in italiano. Il nostro primo album è del 1990, negli Usa stava emergendo la scena grunge di Seattle con i Nirvana e i produttori ci spingevano a cantare in inglese. Io però avevo fatto il classico, amavo scrivere e volevo che ci capissero tutti».

Da qui anche la scelta di andare a Sanremo…
«Fummo coraggiosi. Una rockband che andava al festival allora era come una bestemmia. Ma ho sempre pensato che, se non vuoi rimanere ghettizzato, gli spazi devi prenderteli. Senza però snaturarsi. Infatti ci presentammo con una canzone difficile come “L’Uomo che ride”».

Ispirata all’omonimo romanzo di Victor Hugo.
«Fummo subito eliminati, ma introdussero per noi il premio della critica dei giovani, che fino allora non esisteva. Ho sempre creduto nella contaminazione delle arti e nel potere della letteratura nella musica. Inizialmente però, anche tra i nostri fan, non tutti capivano. Le racconto un aneddoto…».

Prego…
«A ogni concerto mi portavo dietro i libri di Kerouac, Majakovskij, Neruda. A metà spettacolo ne leggevo alcuni tratti. Ricordo che a Roma uno dal pubblico urlò: “A Gassman… canta va!” (Pedrini, ride). In America Patty Smith lo faceva da anni».

Sia con i Timoria che poi da solista ha dimostrato che il rock non è solo trasgressione, ma anche cultura…
«Anni fa una fan mi fermò e mi rivelò che aveva scoperto Hermann Hesse grazie a una mia canzone. Mi emozionai. La musica è un veicolo potentissimo».

Lei ce l’aveva nel sangue. Attitudine familiare…
«I miei bisnonni, nonni e genitori erano operai al cotonificio Olcese di Campione sul Garda, ma tutti in casa suonavano. Il mio bisnonno era liutaio, faceva i mandolini e suonava il clarinetto, sua figlia Nina suonava la chitarra – e in suo onore ho chiamato Nina la mia chitarra – sua sorella il mandolino. Mia mamma Daria cantava. Era festa ogni fine settimana. E proprio il Trentino ha contribuito alla mia storia di musicista e autore».

Racconti…
«Mio padre ricevette in regalo da Olcese, imprenditore illuminato, una borsa di studio e frequentò il liceo classico a Riva del Garda. Fu lui a trasmettermi poi l’amore per la letteratura. E la prima volta che ho imbracciato una chitarra davanti a un pubblico fu proprio a Molina di Ledro, al matrimonio dei miei zii, grazie a un prete molto rock. Per questo sarà una grande emozione il concerto che terrò lì il 28 luglio, riassaporerò le mie origini».

Si sente un pioniere? Con i Timoria ha aperto la strada alla floridissima scena alternative-rock italiana degli anni Novanta…
«Siamo stati dei precursori. Quel che erano i Nirvana nel mondo, noi lo eravamo in Italia. Quel nostro disco d’oro del ’93 ha aiutato poi altri validi gruppi ad emergere. Penso ai Marlene Kuntz, anche loro, come noi, inizialmente prodotti da Gianni Maroccolo (ex bassista dei Litfiba, Cccp e Csi, ndr), agli Afterhours, Casino Royale, Verdena. Gli anni ‘90 per qualità e quantità musicale sono stati irripetibili, simili ai mitici anni ‘60-‘70. Avevamo tutti il fuoco creativo dentro».

«Oggi ci sono tanti brevissimi interpreti, ma pochi autori» ha detto il suo collega Mauro Pagani. Colpa dei talent?
«Non sputo nel piatto dove ho mangiato. L’anno scorso ho partecipato come ospite a X Factor e ho proposto agli autori di creare anche una sezione cantautori. Ma è chiaro che la formula dei talent è televisiva e perciò basata sulle cover e delle ottime voci, così ci ritroviamo ottimi ginnasti della voce e performer, ma manca l’emozione autoriale. Ha ragione il mio amico Mauro, ma è un certo sistema editoriale oligopolista che crea questa formula».

Perché secondo lei?
«Molte canzoni di questi interpreti sono firmate da 5-6 autori, ma le assicuro che non è fattibile scrivere in sei un pezzo. Sono catene di montaggio, magari buone per spartirsi i diritti d’autore».

Lei non ha mai scritto per altri in 35 anni di carriera. Comincerà?
«Sono sempre stato troppo egocentrico e geloso delle mie canzoni, ma adesso sento che potrebbe essere il momento. Nella mia tenuta agricola in toscana sto facendo costruire uno studio di registrazione: però sono un uomo libero e non accetto ingerenze…».

Sottinteso: non farò mai firmare un mio pezzo a sei persone…
«Se qualche discografico dovesse mandarmele in Toscana, offrirò loro un bicchiere di vino. Poi educatamente le congederò».