Il personaggio

domenica 19 Marzo, 2023

Nino D’Angelo al Santa Chiara: «Sbaglio i congiuntivi ma arrivo al cuore. Maradona? Un amico vero»

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Le origini umili, gli esordi difficili e poi il successo. Il cantautore napoletano si racconta alla vigilia della tappa di Trento del suo nuovo tour in programma per sabato 1 aprile all'Auditorium Santa Chiara.

Un poeta che non sa parlare, ma che arriva dritto al cuore della gente: il cantautore e attore napoletano Nino D’Angelo farà tappa a Trento, sabato primo aprile all’Auditorium S. Chiara, con il suo tour Il poeta che non sa parlare. Dopo il grande successo riscosso nel 2022, «a gentile richiesta» l’artista – tra i maggiori rappresentanti della cultura partenopea – è tornato infatti sul palcoscenico per riproporre un live che rappresenta un vero e proprio viaggio musicale che parte dalle canzoni del suo ultimo disco e abbraccia una carriera lunga più di quarant’anni in cui ha saputo conquistare più generazioni, dai grandi successi di quel «ragazzo dal caschetto biondo» ai brani che hanno saputo raccontare, meglio di chiunque altro, quella Napoli sottoproletaria che gli ha dato i natali.
Nino D’Angelo, che live proporrà al pubblico trentino?
«Le dico subito che venire in Trentino, dal punto di vista artistico, è un’esperienza nuova che mi incuriosisce, anche se negli anni Ottanta ci sono stato due settimane per girare un film. Il concerto sarà incentrato sul mio ultimo disco Il poeta che non sa parlare ma non mancheranno i grandi successi dei decenni passati: la mia carriera ha abbracciato diverse generazioni e mi piace ripercorrere nei live questo meraviglioso percorso di vita e musicale».
Parlando del suo ultimo lavoro, da dove trae origine il titolo?
«Nasce da un ricordo personale. La mia professoressa di italiano delle scuole medie, quando commettevo degli errori e magari sbagliavo dei congiuntivi mi diceva: “Nino, tu sei un poeta che non sa parlare: arrivi al cuore anche quando ti esprimi male”. Io per molti motivi non ho potuto usufruire del diritto allo studio, a partire dal fatto che già a quindici anni dovevo aiutare la mia famiglia economicamente, però ho capito che nella vita l’importante è arrivare, anche se in modo “impreciso”, al cuore delle persone».
E partendo da questo ricordo sono nati un disco e un libro che intrecciano, unendo piano personale e collettivo, la sua storia con quella del suo mondo passato e presente.
«La molla è scattata nel periodo del lockdown: nel mio quartiere natale è stato realizzato un murales dedicato a me e, a causa delle limitazioni, faticammo a trovare il momento per inaugurarlo. Quando questo è stato possibile ho capito l’importanza di essere qualcuno in un luogo dove non si diventa mai nessuno e questo ha aperto i miei orizzonti artistici, ispirandomi per questo disco molto poetico ma che appartiene anche alla gente del mio quartiere. Sono fiero delle mie origini e questo è un lavoro dai marcati tratti autobiografici che lega le cose che mi appartengono, tra passato e presente».
Dall’oggi a ieri: tutto inizia nel 1976 con ‘A storia mia (’O scippo), primo il primo 45 giri di quel giovane che diventerà a breve il mitico caschetto biondo, quello dei successi in Italia e all’estero e delle milioni di copie vendute.
«Tutto inizia con una storia incredibile: si partì una colletta famigliare di cinquecento mila lire che consegnai ad un impresario con la speranza di cogliere quel treno che non passa tutti i giorni nella vita, lui purtroppo morì la stessa notte e non rividi più i miei soldi. Nessuno credette a questa storia, nemmeno mia madre: sembra una storia fantastica, anche se per me molto amara. Subito il disco non si fece quindi, poi però riuscii a crearlo “a conduzione famigliare”: pensi che le copertine le facevamo a casa incollandole a mano e io andavo a vendere il disco nei negozi dicendo che ero il fratello di quello che cantava, una storia d’altri tempi. Da li in poi partì la mia grande carriera: la mia forza era quella propria delle persone che non hanno niente, che meno hanno e più sanno dare».
Nel 1991 avverte però la necessità di un cambiamento, di un nuovo percorso artistico: scompare il caschetto biondo e cambiano anche le sue canzoni. Ci spiega questo momento?
«Inizialmente ero considerato l’erede di Mario Merola. Decisi poi di cambiare rotta e di iniziare a cantare i veri valori della vita, indagando temi sociali e che rappresentavano di più il mio pensiero: la gente notava più il caschetto di quello che facevo e, dopo un periodo difficile, uscì una parte di me che voleva andare oltre quella figura».
E oggi che presente artistico sta vivendo?
«Ora sono in una fase in cui la gente ha imparato ad apprezzarmi veramente, conoscendomi meglio come uomo e vincendo anche dei pregiudizi. Oggi mi sento un artista del sud amato ovunque e il segreto è essere sempre se stessi e non vergognarsi di quello che si è: io ho raccontato la ricchezza della mia povertà, che consiste nell’essere felici per le piccole cose».
Tornando al disco, si apre con il grande Toni Servillo che legge dei suoi versi.
«Conosco Toni da quando non era ancora famoso: vidi un suo spettacolo e diventammo poi amici. Per questo lavoro mi serviva una grande voce e, anche se mi vergognavo un po’ dal momento che lo consideravo troppo importante, lo chiamai e gli inviai questi versi. Dopo dieci minuti mi richiamò dicendo: “Come faccio non recitarli? Sono troppo belli”».
E si chiude con Campiò, canzone dedicata a Diego Armando Maradona.
«Il nostro primo incontro è stato simpatico: erano stati affissi dei manifesti con scritto “A Napoli ci sono tre cose belle: Maradona, Nino D’Angelo e le sfogliatelle” e Diego li vide e disse: “Ma chi è questo?”. Quando gli risposero che ero popolare quanto lui volle conoscermi e diventammo amici. Era una persona straordinaria, un grande amico che ho amato come uomo e come calciatore: ho troppi ricordi assieme a lui, era come me e dal punto di vista sociale eravamo fratelli perché venivamo entrambi dal popolo. È stato sempre raccontato e giudicato troppo velocemente e chi l’ha conosciuto veramente non potrà mai parlare male di lui: Diego amava la gente “piccola”, per questo era un grande».
Di oltre quarant’anni di carriera, c’è un fotogramma che porta più di tutti nel cuore?
«Il giorno in cui vinsi il David di Donatello: non me l’aspettavo proprio e non avrei mai pensato che potesse accadere. Quando il Presidente della Repubblica Scalfaro disse che in un viaggio aereo aveva visto il film Tano da Morire capii che qualcosa stava per accadere e così fu».