L'INTERVISTA
giovedì 16 Novembre, 2023
di Federico Oselini
Un violino «dalla doppia voce» con cui duettare in solitaria. Uno sconosciuto per le vie di Genova ad improvvisarsi improbabile annunciatore di un concerto improvvisato. E sullo sfondo quegli anni Settanta così conservatori negli States, ma in Italia più disponibili ad accogliere una giovane Laurie Anderson, artista e narratrice di storie capace in breve tempo di scalare le classifiche con la sua O Superman, che la proietta negli anni Ottanta sulla ribalta della scena internazionale. E poi la sua New York, ieri come oggi oasi di «libertà e sperimentazione» e città che ha cullato anche l’ispirazione del suo compagno di vita Lou Reed, fondatore dei Velvet Underground e tra i più influenti artisti contemporanei. Non basterebbe un libro per descrivere l’universo artistico di Laurie Anderson, artista poliedrica che domani sera alle 21 farà tappa al Teatro Sociale di Trento con Let X=X’, performance sospesa fra teatro d’avanguardia e pop music in cui verrà accompagnata dallo storico quartetto newyorkese Sexmob.
Laurie Anderson, le chiederei subito di parlarci dello show che proporrà a Trento, che prende il titolo da una sua canzone contenuta nell’album Big Science.
«Inizierei parlando proprio di quel disco, che realizzai con l’idea di fare un ritratto degli Stati Uniti perché allora trascorrevo molto tempo in Europa, che era un luogo migliore per fare musica e teatro sperimentali a differenza dei più conservatori States. Molti mi chiedevano come facessi a vivere in un posto così. Ecco, la risposta arrivò con una performance di otto ore e con il pezzo multimediale United States I- IV di cui Big Science Faceva parte».
Come nasce la collaborazione con i Sexmob?
«Ci siamo incontrati per preparare un concerto commemorativo in omaggio al grande produttore Hal Willner, e io scelsi di proporre Gassed stoked and ready to go di Lou. L’arrangiamento era strano e complesso e loro la suonarono alla perfezione ed io pensai: “È fantastico”. Purtroppo, mi ammalai di Covid e non potei partecipare. Decisi quindi che se ne avessi avuto la possibilità, avrei chiesto loro di suonare con me. Ed eccoci qui».
Veniamo a lei, in uno sguardo tra l’ieri e l’oggi. Ha sperimentato moltissimo intrecciando numerose arti, qual è il filo rosso che tiene insieme i vari volti del suo prisma artistico?
«Il modo di raccontare le storie: sia la realtà che la fiction. Quello che alla fine resta è però una domanda: cos’è vero e cosa no?»
E difatti lei si è sempre definita una narratrice. Una curiosità: ci sono degli storyteller che l’hanno emozionata più di altri nel corso degli anni?
«Le voglio lasciare quattro nomi: Spalding Gray, Robin Williams, Ken Nordine e Mingyur Rinpoche».
Se per gioco volessimo fissare un perno attorno a cui far ruotare la sua carriera artistica non potremmo che scegliere New York. Cos’ha rappresentato e cosa rappresenta per lei questa città?
«È una città che si basa totalmente su due concetti: libertà e sperimentazione. Oggi, non c’è dubbio, è un luogo molto diverso da quello in cui la mia carriera artistica ebbe inizio. Rimane però un luogo meraviglioso in cui lavorare e suonare».
Facciamo un altro salto indietro nel tempo, al 1988, anno in cui in Italia la sua O Superman divenne simbolo della lotta contro l’AIDS. Che effetto le fece ciò e che rapporto ha con l’Italia?
«Apprezzai tantissimo il fatto che la mia canzone si prestasse a quella causa. Per quanto riguarda l’Italia, già dagli anni del college iniziai a frequentare il club italiano e mi innamorai di due libri: I promessi sposi e Lui e Io di Natalia Ginzburg. Quest’ultimo è tuttora una delle mie opere preferite in assoluto. Venendo al mio percorso, le prime esibizioni negli anni Settanta furono proprio in Italia e fu per me un luogo aperto e generoso: i confini tra le varie arti erano molto fluidi e spesso ci esibivamo in gallerie d’arte ed esponevamo in spazi insoliti».
E poi incontrò il grande critico d’arte Germano Celant.
«Esattamente. Mi invitò ad esporre a Genova nella sua galleria e io gli portai un violino di mia costruzione con all’interno un altoparlante che riproduceva musica in loop, in pieno stile minimalista. Potevo così eseguire dei veri e propri duetti e, dal momento che quella musica non aveva né inizio nè fine, indossavo dei pattini con delle lame avvolte dal ghiaccio e suonavo finché questi non si scioglievano. E così finiva il concerto. Ricordo le strade della città e un pubblico sempre improvvisato e molto curioso».
C’è però anche un curioso aneddoto biografico su quelle lame avvolte dal ghiaccio.
«È vero. Prima di ogni concerto raccontavo, con un italiano dal marcato accento americano, che avrei suonato quei pezzi perché nel giorno in cui morì mia nonna andai su un lago ghiacciato in cui c’erano molte anatre che, quando mi avvicinai a loro, non volarono via perché avevano le zampe immerse nel ghiaccio. Ricordo che spesso si presentava un uomo che diceva ai presenti: “Questa suona perché una volta lei e sua nonna erano congelate in un lago” (ride, ndr)».
Torniamo al presente. Lei sta lavorando anche con l’intelligenza artificiale per alcune sue creazioni. Come giudica questo strumento?
«Meraviglioso per gli artisti, un po’ meno per gli accademici. Utile per il marketing ordinario, ma abbastanza pericoloso per i social media e i media che fanno leva sulle opinioni».
Parlando di Lou Reed, suo compagno di vita, lei ha scelto di pubblicare il libro «The Art of the Straight Line» in cui lui si racconta attraverso il Thai Chi. Cos’ha rappresentato per voi questa disciplina?
«Bastano quattro parole che spiegano ogni cosa: potenza, risonanza, disciplina e bellezza».
Di lui ha detto: «È in ogni cosa che faccio, perché quando si è stati così uniti non ci si lascia mai».
«Penso a lui ogni giorno, è la mia ispirazione. Ed è ancora, in un certo qual modo, il mio partner. Ed è indicativo, in tal senso, che il disco che abbiamo realizzato sulla sua opera Words & Music-May 1965 abbia appena ricevuto due candidature ai Grammy Awards».
Prima di salutarla, non ci resta che lanciare uno sguardo al futuro: ha dichiarato che se lo pensiamo come un luogo possiamo provare a guardarlo. C’è una traccia, umana e artistica, che vorrebbe consegnare a quel luogo?
«Questo: Ci ho sempre provato più forte che ho potuto, e non mi sono mai arresa».
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